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La Fisica della Realtà

Segue una raccolta di articoli su temi della fisica che si propongono come tentativi sempre più stretti di comprendere la natura fondamentale della realtà, ciò che Immanuel Kant indicò con Noumeno; essi si intrecciano con altre discipline quali psicologia, storia e neuroscienze, e costituiscono un’estensione ideale del mio saggio precedente intitolato Dalla Coscienza ai Buchi Neri (SoleBlu 2022).


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Se invece preferisci il cartaceo, la stessa raccolta puoi trovarla in appendice al summenzionato Dalla Coscienza ai Buchi Neri.


A sx, Copertina di Dalla Coscienza ai Buchi Neri; A dx, Fenomeno e Noumeno, Opera di Pino Santoro, disponibile qui.

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Meditazione Nilambana

Meditazione Nilambana

La pratica Nilambana è una tecnica per comunicare con il nostro Sé Superiore[1] che unisce elementi wiccan, il Reiki e la Psicologia Transpersonale. Per suo tramite eleviamo le nostre istanze di protezione, sostegno, illuminazione, liberazione ed aiuto nella guarigione.

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Come già espresso in passato, anche in relazione ai miei libri, ciò che scrivo è inevitabilmente il prodotto di una conoscenza incompleta. Esso sarà pertanto suscettibile di revisione da parte di chiunque abbia ottenuto una conoscenza superiore, purché ovviamente egli operi in favore di verità e di comprensione.


[1] Il Sé Superiore è quella parte del nostro inconscio che si trova ai margini del Samadhi, laddove ogni individualità cede il passo alla sola Coscienza Cosmica.

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La Società Degenere e la Fine della Morale

La Società Degenere e la Fine della Morale

Vi è nell’essere umano, una volta soddisfatti i bisogni di sopravvivenza fisica, una ben radicata spinta all’ottenimento di un significato per la propria esistenza. Ciò si realizza in due modi radicalmente differenti a seconda che tale esistenza si sviluppi nel contesto di una società che valorizza i particolarismi o di una che tende all’indifferenziazione.

Nel primo caso il soggetto scopre la diversità negli uomini che lo circondano; nota una varietà di razze, tradizioni, attitudini e talenti. Inizia perciò a pensare che egli stesso definisca qualche cosa di diverso o comunque raro. Si sofferma a scoprire le proprie doti e le proprie passioni e le sviluppa, e così facendo si accorge di possedere un “tesoro” utile alla collettività e si responsabilizza per preservarlo e garantirne la trasmissione. In questo modo si responsabilizza verso i propri simili, riconosce il proprio ruolo come determinante e sviluppa una morale. La società tutta si evolve.

Nel secondo caso, il soggetto, non potendo sopprimere la spinta alla propria significazione, è costretto a deviare verso l’identificazione, la quale avviene usualmente verso il suo incarico lavorativo (io sono “l’avvocato”, io sono “il responsabile”), verso un impegno comunitario (io sono “il sacrestano”, io sono “il tesoriere dell’associazione”), o verso un ruolo famigliare (io sono “il padre”, io sono “il marito”, io sono “il fidanzato”). Tale identificazione è solitamente una sola, e pertanto rende la stabilità dell’individuo precaria; allo stesso tempo è comune a molti soggetti, sicché l’individuo non matura alcun tipo di responsabilità morale, in quanto ci sarà sempre qualcun’altro in grado di svolgere la sua funzione. In tale stato, il soggetto vive una condizione pericolosissima. Se la sua identificazione viene messa a rischio, ad esempio se il partner paventa di rompere il fidanzamento, il soggetto percepisce un pericolo per la propria esistenza, nella sua interezza, ed è pertanto “costretto” a difendersi. Può ad esempio uccidere il partner, così che questi almeno non rimanga a sottolineare la sua “morte” esistenziale, confidando in un periodo di catalessi nel quale una nuova identificazione possa sostituire la prima. Peraltro ciò è facilitato dalla mancanza di moralità che consegue all’identificazione. C’è infine un terzo fattore di rischio, che deriva dalla disposizione di un “extra” energetico che era prima occupato nell’identificazione e che adesso, non trovando un utilizzatore nella coscienza, può riversarsi nell’inconscio collettivo, sfociando in figure archetipali come quella del “giustiziere”, con ulteriori rivolgimenti violenti.

Guardatevi da chi utilizza i casi di cronaca per omogeneizzare ulteriormente la società, accollando le colpe ad una presunta discriminazione di razza, religione, sesso o tradizione. Tale direzione è solo un passo in avanti verso il precipizio, e poiché ciò che scrivo non è frutto di genio ma di riflessione ordinaria, potete certamente scorgere il piano che soggiace a tali manovre.

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È Ancora Scuola?

È Ancora Scuola?

Il 1° Orrore è la burocrazia. A inizio anno dobbiamo redigere il programma. Dopo aver fatto l’elenco dettagliato di argomenti e sotto-argomenti, a fianco di ognuno vi sono tre caselle etichettate “conoscenze”, “competenze” e “abilità” da riempire in burocratese. Personalmente una laurea in fisica non mi è stata sufficiente a comprendere cosa vi si debba mettere, così il mio sforzo è sempre stato quello di scopiazzare qui e là dai documenti degli anni precedenti cambiando opportunamente le parole. E comunque, rivolgendomi a colleghi più anziani, mi è stato risposto che più o meno tutti fanno la stessa cosa. Sotto agli argomenti si devono poi mettere i metodi, i mezzi e perfino i luoghi, aula compresa. E ciò che viene messo in previsione, dev’essere riscritto a fine anno in conferma. Per finire si deve redigere una scheda di particolarismi ed eccezioni per ogni alunno segnalato dall’ULSS, e si consideri che allo stato attuale in un Istituto Professionale ciò può riguardare il 60% degli studenti di una classe. Anche qui si lavora in previsione; dopodiché, per ogni compito in classe, si deve aggiungere una scheda di conferma.

Una gran parte di questo numero è certamente dovuta all’eccesso di cortisolo in gravidanza e alle amorevoli “cure obbligatorie” dei primi mesi di vita; altri contributi vengono invece da genitori apprensivi e psichiatri compiacenti che uniscono le forze per facilitare il percorso al figlio. Che poi “facilitare” è ironico, visto che poi dovrà entrare a lavoro come tutti gli altri ma con meno preparazione.

Altro dramma burocratico sono i voti. Anche qui c’è una tabella a quattro colonne con descrittori e ammennicoli per ogni valore da 1 a 10, anche questi in una lingua che il mio cervello si rifiuta di imparare. Per costruire questa scheda si indicono almeno tre riunioni pomeridiane ad inizio anno, con possibili riunioni extra in itinere per le revisioni. Poi, teoricamente, per ogni valutazione si dovrebbe valutare attentamente che quanto svolto dallo studente nel compito implichi tutta la serie di traguardi presenti nella scheda; cosa che si facesse per davvero richiederebbe 45 minuti di correzione per il singolo compito. La realtà è che tutti sgattaiolano, e ciononostante la burocrazia riesce ad occupare il 75% dell’impegno di un insegnante. Si aggiungano le innumerevoli riunioni, variabili tra Consigli di Classe, Consigli di Dipartimento e Collegi Docenti. Quest’ultimi in particolare sono uno spasso: ogni volta viene convocato l’intero corpo docente, benché i comunicati riguardino in genere una dozzina di persone, variabili da incontro a incontro. Il resto si porta libri da leggere, gioca col telefono, chiacchiera col vicino o si porta i compiti da correggere, costretto per 3-4 ore sulle sedie più scomode del pianeta, irritato da come sta sprecando l’esistenza.

Come se non bastasse, di solito il preside aggiunge degli “incontri di formazione” che servono solo a far salire il suo punteggio e farlo salire nella graduato­ria per il provveditorato. Di certo presenziare ad un tizio raccomandato che legge delle slide non ha mai contribuito alla mia formazione. Ad uno di questi incontri ho sentito che il lavoro più importante per un insegnante sarebbe “mettere i voti”. Follia totale.

Si consideri come tali commedie rubino tempo alla preparazione delle lezioni, che ci si trova spesso a fare di fretta e meccanicamente, quando richiederebbe calma e passione.

Il lavoro in aula può essere ancora piacevole per chi possiede sufficiente empatia. Ma vi è un problema di autorità. La parola dell’insegnante può essere smentita in qualunque momento da quella del preside o addirittura del genitore, perdendo credibilità. Vi è infine divieto assoluto di esprimere la propria opinione ogni qualvolta essa diverga dal pensiero dominante; si è persino costretti a prender parte ad attività di condizionamento mentale in favore del sistema, divenendo complici della distruzione di una generazione, pena il licenziamento.

I programmi infine non hanno alcun significato. La scuola dovrebbe insegnare come dall’esperienza e dai documenti si traggano le conclusioni, dovrebbe incentivare il dibattito e il pensiero autonomo. Al contrario si danno nozioni da imparare a memoria, che lo studente dimentica nell’arco di poche settimane, con poche eccezioni che riguardano argomenti oggetto di passioni o che vengono applicati necessariamente nel lavoro. Non vi è nessuna istruzione per la vita pratica: non si insegna ad aprire una partita Iva od un mutuo, non si insegna a stirare o fare una lavatrice, non si insegna come fare piccole riparazioni, cucinare, usare il trapano, … E non vi è nessuna istruzione per la vita emozionale: non si insegna a gestire le emozioni, non si insegna ad affrontare una nevrosi o psicosi, non si insegna a meditare e non si trasmette il valore di una vita sana. Si consideri inoltre che spesso i docenti sono dei millennial frustrati che non hanno nulla da trasmettere nemmeno tramite l’esempio, quando invece ciò che servirebbe ai Gen. Z sarebbe l’entusiasmo di chi vive per le proprie passioni.

Quei pochi validi sono disincentivati ad interessarsi delle vite private degli studenti. Non solo si può rischiare un richiamo per aver sospeso il programma anche solo per un’ora. (Un’ora spesa ad ascoltare è considerata uno spreco di soldi pubblici, mentre il caviale gratis per i parlamentari non pare turbare nessuno.) Il richiamo potrebbe venire da genitori appunto ligi all’obbligo professionale, così come da genitori infastiditi dal nostro mettere il naso dove non ci riguarda. Il che è assurdo, considerato che per riuscire a trasmettere qualcosa è assolutamente necessario entrare in sintonia con l’allievo. Per la cronaca, tre richiami portano al licenziamento.

Infine si consideri che per entrare di ruolo è necessario comprare 60 crediti universitari. È ben noto, tutti li comprano. Non c’è il tempo per ottenere l’abilitazione regolarmente mentre si lavora. Peraltro il prezzo d’acquisto è irrilevante in confronto alla tassa statale che si aggira sui 2500 euro. Dopo l’abilitazione si partecipa al concorso (pagando la marca da bollo) e se si vince c’è l’anno di prova, durante il quale il candidato deve sobbarcarsi un’enorme quantità di lavoro extra sotto il ricatto di venire scartato.

Si consideri infatti che oltre alle mansioni obbligatorie ci sono dei compiti che sono facoltativi sulla carta, ma che qualcuno deve pur fare, e questo qualcuno è sempre il più debole, immancabilmente sotto ricatto e gratis. C’è il coordinatore di classe, c’è l’accompagnatore alle gite (che ci va gratis ma accetta di finire in galera se un minorenne si fa male), c’è il tutor, c’è il coordinatore di dipartimento, l’orientatore e, ciliegina sulla torta, quello che fa Educazione Civica. Forse non è noto, ma qualche anno fa è stato introdotto l’insegnamento (obbligatorio) dell’Educazione Civica senza prevedere un insegnante specifico. Così la si insegna a caso, secondo il metodo “scarica-barile”, senza che nessuno sappia esattamente cosa sta facendo e senza la minima voglia di farlo. Però c’è il voto. E tuttavia gli studenti non sono completamente scemi, e si accorgono che nemmeno il professore vorrebbe essere presente al proprio insegnamento, sicché non sono certo motivati ad impegnarsi.

Insomma, di fronte ad una classe insegnante demotivata, sottopagata, stressata, umiliata e priva di empatia, cosa pretendete possa uscire dalla scuola di oggi? La risposta è che ne esce esattamente ciò che il governo vuole, ovvero soggetti lobotomizzati, incapaci ad opporsi, incapaci di ragionamento critico, privi di un buon esempio e soprattutto impreparati alla vita.

Un plauso alla scuola va anche per la sua capacità di farti odiare quell’attività meravigliosa che è la lettura. Se devi leggere quel che scelgono Loro, se devi farlo dopo che hai dedicato ore ai loro inutili compiti per casa, se devi farlo con l’angoscia di compilare schede prive di significato, evidentemente la direzione è tracciata. Del resto, cosa c’è di meglio di un popolo che non si informa, che non corre il rischio di conoscere, di sapere cosa o chi c’è dietro a tutto questo, che non si chiede perché lavorare 8 ore quando ne basterebbero 4 (che non si chiede dove spariscono i soldi), che non si avvicina alla Verità?

Mi aspetto almeno di trovare presto una lapide alla quale inginocchiarmi, perché la scuola è morta. Eppure nessuno sembra essersene accorto.

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Mindfulness

Mindfulness è la parola inglese per “consapevolezza”, il cui utilizzo più recente è ad indicare un atteggiamento di “totale presenza” che si coltiva attraverso la pratica meditativa. Nella forma importata in occidente dallo psichiatra Jon Kabat-Zinn, tale atteggiamento sottintende i fondamentali precetti della pratica buddista ZaZen e dello Yoga indù (in cui le posizioni del corpo devono essere intese come un mezzo per favorire opportuni stati mentali). Benché introdotta negli Stati Uniti solo negli anni ’70,  alcune idee della Mindfulness erano già presenti negli insegnamenti di derivazione cristiano-gnostica impartiti da G. I. Gurdjieff al Prieuré di Fontainbleu-Avon dal 1922.

Attraverso la Mindfulness, il praticante si rende conto di come abbia sempre vissuto con il pilota automatico, secondo una catena di stimoli e risposte sulle quali non ha mai esercitato alcun controllo. La meditazione permette di interrompere la catena e di osservare. Allora il praticante si accorge di potersi “guardare da lontano”, scoprendo come la sua mente accolga numerosi ospiti (pensieri, emozioni, sensazioni), ma come egli non sia nessuno di questi ospiti. Il praticante osserva senza lasciarsi coinvolgere, non entra negli ospiti né si identifica con loro, li accetta ma non li trattiene. Egli si esime inoltre da qualunque giudizio o ragionamento. Egli sà che non deve provare vergogna per ciò che sente, né averne timore, né astio. Imparerà a NON dire “mi vergogno”, “ho paura” o “sono arrabbiato”, ma piuttosto “c’è della vergogna”, “c’è della paura”, “c’è della rabbia”. Imparerà a riconoscere i suoi ospiti, a chiacchierare con loro; comprenderà da dove sono venuti e che cosa portano veramente; che cosa insegnano e che cosa nascondono. Non giudicando i propri ospiti imparerà a non giudicare gli ospiti delle persone che incontra, dagli amici, ai parenti, ai colleghi di lavoro. Non giudicando gli altri sarà più propenso ad amarli, ed amandoli sarà più propenso a lasciarsi andare, ad aver fiducia nel mondo e nel significato dell’esistenza. Non giudicando, non ha timore di essere giudicato. Guadagna autostima ed autoefficacia.

Osservando sé stesso il praticamente apprende a vivere il momento, senza rimpianti né aspettative, acquisendo la capacità non solo di accettare il presente, ma soprattutto di scovarne l’immenso potenziale. Vivere nel presente vuol dire avere piena coscienza del nostro corpo, della nostra mente (delle nostre potenzialità) e dei reali sentimenti di chi ci circonda. Consente in primis di sperimentare la serenità (uno stato d’animo “eterno” che dipende unicamente da noi stessi), mentre in secundis favorosce scelte appropriate per il futuro (ancorate su un presente reale e non illusorio). Un uomo sereno può godere pienamente degli istanti di felicità che le sue scelte comportano, nella piena consapevolezza che la felicità (come la tristezza) è il risultato di un evento limitato nel tempo e che pertanto è limitata essa stessa. Per la stessa ragione non soccombe alla tristezza, osservandola con curiosità come un treno di passaggio.

L’uomo consapevole è l’uomo che non fugge. Accetta la realtà, sa di poterla accettare e accettandola di poterla migliorare. Non ha bisogno di alcuna droga. Non deve fare selfie al suo cibo o ai locali che frequenta per mostrare al mondo una felicità fittizia. L’uomo consapevole sa trarre piacere da quanto lo circonda. L’uomo consapevole è efficace, ma sa anche stare immobile in silenzio. L’uomo consapevole è leggero.


Come si legge in J. Kavat-Zinn, Vivere Momento per Momento (Corbaccio 2021), la pratica meditativa quotidiana ricostruisce i telomeri (fa ringiovanire), incentiva la produzione di nuovi neuroni e sinapsi, riduce la frequenza e l’intensità dei dolori cronici, rafforza il sistema immunitario e riduce l’impatto degli stressori su mente e corpo.

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Razzi & Petardi

Sabato 21 gennaio 1995, entro il piccolo universo della scuola media di Mussolente (VI), la classe 1a A distribuiva il primo numero del giornaletto Razzi & Petardi, qualcosa per la quale ci aveva ispirato probabilmente la serie adolescenziale Bayside School. Diversamente da quanto accadeva lì, nel nostro caso non vi era alcun tipo di appoggio o coordinamento da parte degli insegnanti. Semplicemente noi decidevamo cosa scrivere, noi componevamo le pagine (a mano con penna, forbici e colla), quindi facevamo fotocopie e infine le distribuivamo in cortile durante l’intervallo.

Vendevamo lo stesso numero in formato A4 a 500 lire, e nei formati A5 (mini) ed A3 (maxi) a 600 lire. Eravamo io, Enrico, Matteo, Silvia, Zuela, Cristian e Giorgio (sperando di non aver dimenticato nessuno). Ovviamente avveniva tutto a norma di legge con emissione di scontrino (sigh).

Vi chiederete perché ricordi questa simpatica iniziativa in un sito dedicato alla crescita personale. La ragione è che vorrei mostrare cosa si poteva fare quando la creatività non veniva oscurata dai social-media e dai videogiochi-3D. Non che si possa considerare Razzi & Petardi un’opera d’arte, ma certamente costituiva un’espressione dei nostri mondi interiori, ed apriva le porte ad iniziative più complesse che sarebbero venute con la maturità intellettuale. Così facendo la nostra energia aveva trovato uno sfogo sano, e nessuno si sognava di mettere in piedi una baby-gang.

Se vi interessano le emozioni di quegli anni, credo di averle descritte opportunamente e in maniera simile tanto in Samsara che in Un’Iniziazione Durata Trent’Anni. Quando scrissi Samsara il ricordo era peraltro ancora vivo, considerato che lo conclusi nel 1999.

Ad ogni modo, dei soldi raccolti dalla vendita del giornale, la metà venne donata all’UNICEF … merito della professoressa Favero che ci aveva smosso con una lettura sulle difficili condizioni dei bambini nei Paesi poveri … L’altra metà venne dilapidata da Enrico sui videogiochi del patronato. Non ci fu tuttavia una reale polemica, in quanto i costi di stampa erano tutti a carico di suo papà che usava la fotocopiatrice per lavoro.

Negli stessi anni girava anche una compilation di canzoni demenziali scritte, arrangiate e interpretate dagli stessi Cristian ed Enrico, passata alla storia come Da-A Compilation. Sarebbe interessante se qualcuno ne facesse comparire una copia. In quest’epoca di pazzi potrebbe diventare una HIT.

Qui sotto potete intanto scaricare gli unici tre numeri del giornaletto sopravvissuti (che io sappia).

Razzi & Petardi, a.s. 1994-1995
11 febbraio 1995 18 febbraio 1995 25 febbraio 1995