🌊 Dove si trova davvero Atlantide? 🧭 Se fosse stata nel Mar Baltico, e non nell’Oceano Atlantico?
“Dossier Grecia e Atlantide” è un viaggio tra mito, storia alternativa e archeologia proibita. Dimentica ciò che pensavi di sapere: questa raccolta libro ti condurrà a riscoprire l’origine perduta delle civiltà europee, partendo da Platone, passando per Indiana Jones, fino a ricostruzioni affascinanti che uniscono la mitologia norrena, slava e greca in un’unica, potente narrazione.
✨ Dall’Isola di Rügen come vera capitale di Atlantide, 🛡️ Ai Kureti e ai Teschi di Cristallo, 🏛️ Dalle rotte migratorie post-diluviane alle vere origini di Roma e Londra… Il testo colma i vuoti della Storia ufficiale con ipotesi audaci, fonti inedite, e un impianto narrativo che unisce erudizione e passione.
👁 Per chi ama Graham Hancock, Tolkien e i misteri antichi.
Dal 1881 al 1934, le sedute medianiche in casa dei Conti Mancini-Spinucci a Fermo raccolsero le informazioni necessarie alla costruzione di tre macchinari futuristici incentrati sul concetto di “sintropia”. È questa la facoltà di invertire il tempo-proprio di un sistema affinché evolva spontaneamente dal disordine all’ordine, dall’omogeneità alla differenziazione. Come se i cocci a terra si ricomponessero nel vaso così com’era prima di cadere.
Ereditando gli studi preliminari del padre Cesare, e con essi i suoi prototipi, nel 1962 l’ingegnere Alessandro Porro realizzò il “rabdomante elettronico”. Il congegno captava le cosiddette “neutroonde”, emissioni abbinate alle onde elettromagnetiche, di pari frequenza ma capaci di attraversare la materia per chilometri senza venirne attenuate.
Nel sottosuolo padano, alla profondità di circa 400 metri, Porro rivelò dei “campi di sfere”. In ogni campo, decine di strutture sferiche in cemento e titanio occupavano i vertici di un reticolo di passo 80 metri. Il diametro delle sfere era di 40 metri. Al loro interno galleggiava una struttura squadrata suddivisa in 41 locali, ognuno dei quali ospitava un organismo umanoide in animazione sospesa.
Solo nel 1967 Porro ideò un sistema per misurare la profondità delle sfere. Prima supponeva di raggiungerle con uno sterro di 20-30 metri. Fu perciò iniziato uno scavo a Caslino.
Nel febbraio 1966, a 52 metri di profondità, il pozzo incontrò una risorgiva e dovette essere interrotto.
Mario Pincherle fa riferimento alle neutroonde distinguendole tra “onde chimiche” e “onde psichiche”: «Ogni sostanza, ogni materia, ha la sua vibrazione. Se consideriamo una scrittura effettuata con inchiostro, questa scrittura produce due tipi di vibrazioni. Una è dovuta al fatto che un essere umano, di suo pugno, scrive autobiograficamente il suo nome o effettua un qualsiasi altro scritto. Un’altra è dovuta alla composizione chimica dell’inchiostro».
«La vibrazione di una frase scritta autobiograficamente da un uomo ha una particolare lunghezza d’onda ben distinta da quella dell’inchiostro. È un’onda personale (oppure onda psichica) rilevabile anche se lo scritto è posto in busta chiusa. A far da “testimone” basta un capello, un pezzetto di pelle umana, un’unghia che riproducono vibrazioni. Con molta esattezza l’Antenna Bardeloni facilmente rileva queste vibrazioni.»
Il riferimento è al primo prototipo di rabdomante elettronico, realizzato e impiegato dal Generale Cesare Bardeloni nel 1923.
Continua Pincherle: «È anche possibile, con due Antenne Bardeloni poste in località diverse, individuare il luogo in cui si trova una persona scomparsa o nascosta. Questo è il sistema della parallasse e del radiogoniometro. Se la persona ricercata è nel frattempo defunta, l’Antenna Bardeloni, tramite un “testimone”, rileva due centri di irradiazione: uno proveniente dai resti umani, se si sono conservati nella sepoltura, e l’altro in direzione di un particolare punto dello spazio celeste, in cui un misterioso quid continua l’emissione dell’onda psichica della persona ricercata. Questa onda psichica ha lunghezza d’onda invariabile, ma ne varia l’intensità. Per quanto riguarda l’emissione dovuta alla materia inerte, questa onda chimica persiste finché dura la materia; poi, se la materia si dissolve, la vibrazione stessa sparisce».
Un’onda psichica, modulata dal pensiero e “riflessa” dalle creazioni dello stesso, fu registrata anche da Porro negli anni ’60. L’ingegnere trascrisse centinaia di fogli nei caratteri degli Antichi, riconoscendo tra questi anche un sillabario che associava parole a immagini, progettato apposta affinché chiunque a distanza di secoli fosse nella condizione di imparare quella lingua. Furono perciò disposte delle traduzioni, di cui qualcuna presente negli archivi del Rabdo Team.
Le sedute in Villa Spinucci condussero all’istituzione di un laboratorio chiamato “Officina LuX” e sottoposto all’Ordine della Rosa+Croce, in particolare alle logge denominate “RosaCroce d’Oro” e “Ordine dei Polari”.
A metà degli anni ’30 l’Officina arruolò il giovane fisico Ettore Majorana. Intanto, nel ’33, i fascisti avevano organizzato un laboratorio rivale negli scantinati dell’Università La Sapienza di Roma. Denominato “Gabinetto RS33”, la sua direzione toccò guarda caso allo zio di Ettore, Quirino Majorana. Forse per evitare le ingerenze di Quirino, nel ’38 Ettore fece smarrire le sue tracce, riparando prima presso la Certosa di Calci e più tardi nel Convento di Serra San Bruno.
Vent’anni più tardi, le ricerche di Ettore consentirono la realizzazione del “Dito di Dio”, che con un minimo apporto di energia consentiva l’ottenimento di cinque risultati straordinari: 1. Annichilimento della materia; 2. Conversione dello spin particellare in calore; 3. Trasmutazione della materia; 4. Inversione del tempo-proprio e conseguente ringiovanimento degli organismi biologici; 5. Teletrasporto.
Dalle ricerche dell’Officina LuX vennero anche gli UFO avvistati in Italia dal 1924, di cui il primo in agosto di quell’anno a Reggio Emilia. L’UFO-crash del 1933 a Vergiate consentì ai fascisti di mettere le mani su un Disco Volante e di avviare le operazioni di retro-ingegneria del Gabinetto RS33. Le ricerche passarono a Berlino con l’accordo Hitler-Mussolini del 1941, consentendo lo sviluppo del disco volante “Haunebu” e della campana levitante “Die Glocke”.
La NACA (poi NASA) ne acquisì i risultati nel 1945 con il Progetto Paperclip. Curioso però che la stessa tecnologia consentisse il successo dell’Esperimento Philadelphia il 12 agosto 1943, ottenendo il teletrasporto del cacciatorpediniere US Eldridge. Come se Tedeschi e Americani scambiassero la propria tecnologia ancora prima che la guerra finisse. Fatto è che dal 1947 cominciarono gli avvistamenti di UFO sui cieli americani, a iniziare dal 24 giugno con i nove oggetti segnalati dal pilota Kenneth Arnold nelle vicinanze del Monte Rainier, sulla West Coast.
Si suppone che i frequentatori dell’Officina LuX includessero il Segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti, principale antagonista di Benito Mussolini. Originario di Fratta Polesine, nel 1920 avrebbe accolto lo scrittore Howard Phillips Lovecraft in visita nella vicina Loreo. Nelle sue opere, il romanziere avrebbe trasposto le vicende culminanti dei cosiddetti “Antichi”, qui identificati con la “Stirpe di Cthulhu”. Alla fine della propria storia terrestre, un terzo avrebbe riparato sotto terra; un terzo si sarebbe stabilito su un pianeta del sistema trisolare di Sirio; un terzo infine sarebbe asceso abbandonando il proprio corpo materiale.
Ecco perché ufologia e medianità vanno di pari passo. Esseri ascesi ed extraterrestri condividono la stessa origine e comunicano regolarmente. I contattisti interagiscono con gli uni e gli altri.
Per Thomas Khun la conoscenza scientifica si realizza attraverso “mutamenti di paradigma”. In tali transizioni, un ruolo fondamentale è svolto dalla comunicazione verbale e quindi, dalla propaganda. Con le parole di Khun: «la verità è nel potere».
In un numero precedente abbiamo introdotto il falsificazionismo di K. R. Popper, una corrente filosofica che stabilisce un criterio di demarcazione tra scienza e non scienza.
Nei decenni successivi, le tesi popperiane furono oggetto di ampio dibattito, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, in occasione della pubblicazione del saggio The Structure of Scientific Revolutions[1] dell’epistemologo Thomas S. Kuhn (Cincinnati 1922 – Cambridge 1996).
Secondo Khun la conoscenza scientifica si realizza attraverso due modalità complementari: 1) modalità normale; 2) modalità rivoluzionaria. Nella prima ritroviamo una “comunità scientifica” che stabilisce l’esistenza di principi e regole generali. Ed è solo la fede in tali principi ad essere il fondamento della cosiddetta “prassi ulteriore”. Scrive Khun: «Il paradigma è costituito da conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo di tempo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca».
Ad esempio, un paradigma può essere costituito da una teoria T il cui requisito fondamentale è il seguente: T deve risultare migliore di altre teorie T’, T”, … in competizione con T.
È evidente che la modalità normale esibisce la massima performance nelle scienze applicate, per cui essa assume i connotati di una modalità di tipo ingegneristico.
Inoltre, eventuali soluzioni “inattese” sono escluse dall’indagine scientifica in modalità normale.
Quando, invece, si presentano delle “anomalie” cioè fatti sperimentali inspiegabili nella modalità normale, la fede nel paradigma viene indebolita. Lo step successivo consiste in una proliferazione di teorie contrastanti che compongono secondo Khun, il “nucleo della crisi” che implode in corrispondenza di anomalie “irriducibili” ovvero non risolvibili nella modalità normale. L’aumento progressivo del numero di studiosi consapevoli dell’esistenza di anomalie irriducibili, determina la transizione dalla modalità normale alla modalità rivoluzionaria, in cui l’evento risolutore è rappresentato dalla nascita di un nuovo paradigma.
La realizzazione di un nuovo paradigma è un evento discontinuo, cioè “istantaneo”. Scrive Khun: «[il paradigma] emerge tutt’a un tratto, talvolta nel buio più completo, nella mente di uno scienziato profondamente immerso nella crisi».
La “rivoluzione scientifica” è, dunque, costituita dalla transizione da un paradigma a un altro, transizione che si realizza grazie a “lampi di intuizione” interpretabili attraverso eventi psichici, irriducibili e allocati nel subconscio di quella speciale classe di studiosi profondamente immersi nella crisi. A nostro avviso, un esempio emblematico è offerto da Werner Heisenberg, uno dei principali artefici della “rivoluzione quantistica”. Scrive Heisenberg[2]: «Ricordo le discussioni con Bohr che si prolungavano per molte ore fino a tarda notte e che ci conducevano quasi a uno stato di disperazione; e quando al termine della discussione me ne andavo da solo a fare una passeggiata nel parco vicino, non potevo fare a meno di ripropormi in continuazione il problema: è possibile che la natura sia così assurda come ci appare in questi esperimenti atomici?».
Secondo Khun, i “lampi di intuizione” che innescano la transizione al nuovo paradigma, non hanno alcun legame logico e fattuale col vecchio paradigma. Ad esempio, il “quanto d’azione” introdotto nel 1900 da Max Planck, per risolvere l’enigma dell’emissione del corpo nero, è completamente estraneo alla fisica classica. Infatti, Planck inizialmente interpretò tale oggetto alla stregua di un artificio matematico finalizzato alla risoluzione del problema, per poi concludere che il quanto d’azione ovvero la quantizzazione dell’energia, caratterizzava il processo fisico in esame. Incidentalmente, il quanto d’azione si presentò nella seconda metà dell’Ottocento in una argomentazione di Hamilton, secondo la quale il moto di una particella (nel paradigma della meccanica classica) equivale alla propagazione di un’onda che obbedisce a un’equazione differenziale del tipo Schrödinger, in cui compare una costante fisica con le dimensioni di una “azione” (cioè, energia x tempo), e che si identifica con la grandezza trovata successivamente da Planck. Per questa ragione, il risultato di Hamilton venne interpretato come la conseguenza di un formalismo matematico privo di significato fisico.
Siamo, quindi, ben lontani dalla continuità temporale prevista dal falsificazionismo di Popper. L’inevitabile incommensurabilità tra un paradigma e il successivo, determina una “carica irrazionalistica” che è il building block dell’approccio psico-sociologico di Khun. Egli scrive: «la competizione tra paradigmi diversi non è una battaglia il cui esito possa essere deciso sulla base delle dimostrazioni».
Secondo Khun, l’adesione a un determinato paradigma è determinata da ragioni di natura propagandistica, che spesso assumono l’aspetto di un atto di fede. In ciò ravvisiamo un legame con lo scientismo, corrente filosofica ampiamente criticata dallo stesso Popper, attraverso il noto aforisma: «Se lo scientismo è qualcosa, esso è la fede cieca e dogmatica nella scienza. Ma questa fede cieca nella scienza è estranea allo scienziato autentico».
[1] Khun T. S., La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche, Einaudi 2009.
[2] Heisenberg W., Fisica e Filosofia. Il Saggiatore 1963.
[3] Belloni E., Thomas S. Khun:“Paradigmi” e “Rompicapi” nella Ricerca Scientifica, Annuario della EST 1976.
[4] Lunghi S., Karl Popper: Verifica e Falsificazione delle Teorie, Annuario della EST 1976.
Il Cenacolo realizzato da Leonardo da Vinci tra il 1494 e il 1498 è indubbiamente la più celebre delle rappresentazioni dell’Ultima Cena di Cristo. Il dipinto, realizzato su commissione del duca Ludovico Maria Sforza, è attualmente conservato presso il refettorio della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano. L’opera che noi osserviamo con sguardo ammirato offre soltanto un flebile ricordo del capolavoro contemplato dai contemporanei di Leonardo. Sappiamo con certezza che il Cenacolo incominciò a deteriorarsi dopo pochissimi anni dal suo compimento a causa del metodo pittorico utilizzato dall’autore, la tempera mista su gesso, perciò dell’originale oggi è rimasto ben poco.
L’opera è stata oggetto di svariati restauri, con la conseguenza che nel tempo molti artisti hanno messo mano sull’originale contaminandolo e producendo talvolta delle incongruenze. Si pensi ad esempio all’ormai famosa mano armata di coltello che si trova tra il secondo e il terzo apostolo alla destra di Gesù: alcuni ritengono appartenga a Pietro, altri che in origine fosse attribuibile a Giuda, altri ancora che sia di un quattordicesimo misterioso personaggio chino a terra.
Diversi studiosi si sono dilettati a rintracciare nel cenacolo vinciano simboli e allegorie ermetici, proponendo a volte interpretazioni singolari. Una di queste vede in Gesù al centro della scena una rappresentazione del Sole, mentre gli apostoli attorno a lui raffigurerebbero le dodici costellazioni. Senz’altro si tratta di un’interpretazione intrigante, ma non possiamo fare a meno di domandarci se sotto questa decrittazione se ne nasconda un’altra, più profonda e impenetrabile. Del resto è piuttosto plausibile che Leonardo sia venuto in contatto con varie correnti esoteriche durante la sua vita; di lui si è detto addirittura che fosse stato un rosacrociano e un gran maestro del Priorato di Sion. Se ammettiamo, pur senza darlo per certo, questo presupposto ci aspetteremo di trovare nel cenacolo qualcosa di più di una riproduzione allegorica della mappa celeste col Sole e le dodici costellazioni.
La chiave di interpretazione per comprendere il significato più profondo del cenacolo potrebbe essere lo Gnosticismo, in particolare le sue propaggini definite “ofite” per le quali i Templari furono accusati di simpatizzare. Secondo gli Ofiti, il “Padre di Tutti” emanò il Figlio e solo dopo comparve l’Agape (lo Spirito Santo). Questa terna creò Cristo e sua sorella Sophia (la Saggezza), la quale ebbe dei figli, tra cui il demiurgo Jaldabaoth, il quale si ribellò all’autorità e creò il mondo materiale e l’uomo. Jaldabaoth rinchiuse i progenitori Adamo ed Eva nell’Eden per farsi venerare, ma Sophia inviò loro il serpente che li indusse a cibarsi di un frutto proibito capace di risvegliare la conoscenza. La Saggezza, infatti, all’insaputa del figlio, avrebbe infuso negli uomini una scintilla divina che rimaneva assopita per opera dello stesso Jaldabaoth. Secondo gli Ofiti Gesù, a volte identificato col serpente, sarebbe disceso dal cielo per accendere tale scintilla e liberare gli uomini dalla tirannia del demiurgo.
Durante il processo a carico dei Templari si discusse parecchio di un idolo chiamato Baphometus, che secondo le accuse i cavalieri avrebbero venerato: era descritto come una testa spaventosa con lunga barba bianca e occhi scintillanti e ad esso veniva attribuito il potere di far crescere i fiori e i raccolti. La stessa parola Baphomet tradisce un senso gnostico: nata dalla fusione dei due termini greci Bafo (= “tintura” e per estensione “battesimo”) e Meti (= “spirito”), possiamo tradurla con “battesimo dello spirito” o “illuminazione dello spirito”, il battesimo di fuoco degli antichi gnostici (lo Spirito Santo). Non sappiamo quanto attendibili fossero le confessioni dei cavalieri circa l’esistenza del caput Baphometi, visto che furono loro estorte dagli inquisitori con la tortura, e non ci risulta nemmeno siano state rinvenute prove della presenza di tale simulacro all’interno dei capitoli. Potremmo ipotizzare che tale culto fosse accessibile a una cerchia molto ristretta all’interno dell’ordine oppure che i cavalieri fossero riusciti a nasconderne le tracce in tempo, presagendo che tale simbolo prima o poi avrebbe potuto portare loro problemi.
Se gli Ofiti identificavano talvolta Gesù col serpente, c’era un’altra conventicola presumibilmente gnostica che lo identificava con l’Ofiuco dell’omonima costellazione. Nell’Elenchus o Refutatio omnium haeresium, opera del II secolo generalmente attribuita a Ippolito di Roma, si menzionano alcuni “anonimi eretici” la cui interpretazione della mappa stellare è degna di nota: costoro vedevano nella costellazione di Ercole un riferimento celeste al biblico Adamo, mentre i gruppi stellari vicini, ovvero le costellazioni del Drago, dell’Ofiuco, della Corona e della Lira, venivano associate rispettivamente al male, a Cristo, alla salvezza escatologica e al Logos. Per gli anonimi eretici la costellazione dell’Ofiuco o Serpentario sarebbe che la rappresentazione celeste di Cristo, il quale impedisce al Drago (emblema del male) e alla sua prole di raggiungere la Corona pregiudicando la salvezza dell’uomo.
L’Ofiuco, il cui nome deriva dal latino Ophiuchus, letteralmente “colui che porta (o domina) il serpente/conoscenza”, veniva spesso raffigurato nelle stampe e negli atlanti storici come un uomo con un enorme serpente avvolto attorno alla vita, con la testa dell’animale nella mano sinistra e la coda nella destra. La stella più brillante della costellazione, α Ophiuchi, era chiamata anche Ras Alhague, dall’arabo raʾs al-ḥayyah cioè “testa dell’incantatore di serpenti”.
In effetti, osservando una carta celeste antica noterete che Ras Alhague è posta proprio in corrispondenza della testa (spesso all’altezza dell’occhio destro) della figura mitologica del Serpentario, il che ci fa supporre che l’illuminazione dello spirito (ovvero il Baphomet) potesse rappresentare per gli Ofiti e i Templari la conoscenza portata o dominata dalla testa dell’incantatore di serpenti Ofiuco, la “Gnosi di RAs ALhague” o più semplicemente il G-RA-AL. Del resto sia la testa del Bafometto che il Santo Graal non erano forse oggetti che portavano benessere e abbondanza? Se la prima faceva maturare piante e messi, il secondo non era certo da meno per prodigi compiuti: nel Parsifal di Chretien il Graal appariva come un vassoio di abbondanza, nel Giuseppe d’Arimatea era la coppa dell’Ultima Cena, mentre nel Parsifal di Eschenbach veniva descritto come una pietra miracolosa in grado di produrre ogni cosa si potesse desiderare.
Tenendo a mente tali informazioni, abbiamo consultato una mappa delle stelle principali che compongono la costellazione del Serpentario e dopo averne prese alcune come punti di riferimento abbiamo tracciamo una linea che le congiungesse. I corpi celesti in questione sono: α Ophiuchi o Ras Alhague; ε Ophiuchi, conosciuta anche col nome tradizionale di Yed (dall’arabo “mano”) Posterior (dal latino “dietro”), posizionata in prossimità della mano sinistra del Serpentario; e ν Ophiuchi, a volte detta Sinistra in latino sebbene sia posta nella mano destra della figura mitologica.
Dato che l’Ofiuco veniva rappresentato come un uomo che trattiene un serpente (con la testa dell’animale nella mano sinistra e la coda nella destra), abbiamo aggiunto allo schema alcune stelle della costellazione del Serpente: η e θ Serpentis, posizionate nella parte corrispondente alla coda del serpente; e μ, ε, α, δ, β, κ e γ Serpentis, situate nella testa del serpente. Abbiamo quindi sovrapposto il tracciato all’Ultima Cena di Leonardo in modo che α Ophiuchi si andasse a collocare in prossimità dell’occhio destro di Gesù.
Se osservate l’immagine noterete come la mano destra (ν Ophiuchi) e quella sinistra (ε Ophiuchi) dell’Ofiuco coincidono con quelle del Cristo a tal punto da dare l’impressione che egli stia davvero afferrando il serpente. Un altro particolare notevole è la curvatura della coda dell’animale che combacia quasi esattamente con la piega della spalla del discepolo Giovanni.
Fermo restando che quella proposta è solo un’interpretazione, potremmo spingerci oltre ed ipotizzare l’esistenza di tre livelli di comprensione insiti nel cenacolo vinciano. Ad un primo sguardo , l’intelligenza razionale ci fa vedere Gesù assieme ai discepoli durante l’Ultima Cena, ma il potere dell’immaginazione in sinergia con alcune conoscenze astronomiche basilari apre ad un livello interpretativo più profondo: il tema della morte e risurrezione di Cristo si palesa attraverso le costellazioni e il ciclo della ruota solare. Il terzo livello, accessibile unicamente al pensiero intuitivo, svela l’esistenza di una conoscenza segreta, la “GNOSI DI RAS ALHAGUE” (G-RA-AL) della quale Cristo è latore. In essa sono custoditi il mistero della creazione, il segreto dell’immortalità e la possibilità per l’anima di liberarsi dal giogo di una legge cosmica che potremmo definire imprescindibile. Le più antiche tradizioni cosmogoniche svelano come l’intera creazione sia in balia di un ordinamento superiore per cui non può esistere bene/luce/vita/ordine senza male/tenebre/morte/disordine che si alternano in un’inevitabile polarizzazione. L’essenza di questa legge è stata custodita per secoli all’interno dei riti misterici così da poter essere accessibile a molti ma comprensibile a pochi, mentre le idee religiose furono per lo più tramandate attraverso simboli e miti enigmatici per non dire stravaganti.
Estratto da Stefania Marin, Il Giogo dell’Anima: L’Universo, l’Uomo e la Legge Cosmica, YCP 2024.
Ermete Trismegisto fu Gran Maestro della Fratellanza Bianca Egizia alla fine del XIV secolo a.C. (tra le gestioni di Akhenaton e Atonamen). I 42 libri a lui attribuiti e tradotti in greco ad Alessandria, costituirono una risorsa intellettuale in tutto il bacino mediterraneo fino alla loro sparizione (con la censura di Teodosio) e di nuovo con la loro riscoperta nella Firenze medicea del XV secolo.
Marsilio Ficino, che ne fu il primo traduttore moderno, descrisse Ermete come uno degli antichi maestri di una linea che avrebbe incluso tra gli altri anche Orfeo, Pitagora e Platone. Ficino attribuisce a Ermete la previsione di alcuni eventi religiosi futuri, tra cui la venuta di Cristo, la resurrezione, l’ascesa del Cristianesimo e il giudizio finale.
I suoi insegnamenti suscitarono ampio interesse nelle logge dei muratori, che vi scorgevano una saggezza spirituale e filosofica alternativa e complementare alla dottrina cristiana. Perfino in seno alla Chiesa si valutò di attingere ai Testi Ermetici per integrare le Sacre Scritture.
Nel 1488 lo scultore Giovanni di Stefano ne trasferì l’immagine nelle decorazioni marmoree del Duomo di Siena, in cui lo vediamo nell’atto di offrire un libro a Mosè, simboleggiando così il dialogo tra culture e tradizioni religiose. Il cartiglio alla base della scena dichiara: «Hermis Mercurius Trismegistus contemporaneous Moysi» (Ermete Mercurio Trismegisto contemporaneo di Mosè).
Il Vescovo di Aire, Francoise Foix de Candalle, meglio noto come Flussas, nel 1570 ca. dichiarò che Ermete si era dedicato alla conoscenza delle cose divine superando quello «che era stato rivelato ai profeti ebrei, ed eguagliando le rivelazioni degli apostoli e degli evangelisti». Nel 1591, infine, lo studioso neoplatonico Francesco Patrizi si rivolse a Papa Gregorio XIV chiedendo che il Corpus Hermeticum venisse insegnato a tutti, finanche ai Gesuiti, affinché potesse servire come una sorta di strumento di conversione per la Chiesa cattolica, dato che il suo fascino avrebbe potuto richiamare «gli uomini capaci di Italia, Spagna e Francia; e forse anche i protestanti tedeschi seguiranno il loro esempio e torneranno alla fede cattolica».
Le proposte di integrazione furono infine bocciate, tanto più che gli insegnamenti di Ermete includevano una forma di magia talismanica che secondo i canoni ecclesiastici si inseriva a pieno titolo nella stregoneria. La massoneria reagì allontanandosi dai monasteri ed eleggendo dei capitoli laici.
Secondo G.I. Gurdjieff, dietro la firma di Ermete si nasconderebbe la figura del sapiente Ashyata Sheyimash, i cui natali furono in un villaggio presso Babilonia nel 1370 a.C. circa.
Ashyata compì due ritiri spirituali sul Vesuvio (Vezinyama), a conclusione dei quali fondò una fratellanza a Giulfapal (Golfo di Afar/Afraore, oggi Afragola) chiamata Hishtvori (lett. “è figlio di Dio chi è consapevole”). Il Paese, sotto giurisdizione degli Opici, era al tempo chiamato Kurlandtech (Kur-tek Land, terra della montagna-sostegno).
Più tardi, il maestro si spostò in Egitto. I suoi insegnamenti – diffusi dai discepoli – avrebbero ispirato le rivolte popolari che segnarono il crollo dell’età palaziale in Grecia e Mesopotamia (fine del periodo acheo e cassita).
Il suo discepolo più illustre fu il faraone Akhenaton (r. 1348-1333 a.C.). Colpevole di avere introdotto il monoteismo – mettendo a rischio il prestigio dell’élite sacerdotale tebana –, nel 1333 a.C. il sovrano fu espulso dal Paese e trovò rifugio ad Harran, nell’Alta Mesopotamia. Con sé recava gli scritti del Maestro Sheyimash, la cui diffusione fece sorgere ad Harran la comunità dei Sabei. Gli stessi più tardi avrebbero fondato una “colonia” a Baghdad.
I Sabei tennero presso di sé i Testi Ermetici in una sorta di lunga incubazione nel periodo l’Occidente ne aveva perso la memoria. Tobias Churton osserva: «è sicuramente strano che proprio quando i Sabei sembrano scomparire da Baghdad, i documenti a noi noti come Corpus Hermeticum appaiono a Costantinopoli dopo un intervallo di 500 anni».
Secondo i praticanti della Cabala, la lingua ebraica sarebbe la lingua primordiale parlata dagli Antenarya, da cui le altre (indoeuropee e semitiche) sarebbero derivate. Spiegano inoltre che le parole ebraiche sarebbero state concepite di modo che ogni permutazione delle consonanti chiarisse una sfumatura della parola di partenza, contribuendo a estenderne il significato e a restituirle il senso originario nel caso in cui il tempo lo alterasse. Questo in effetti si realizza, benché in forma minore, anche nel sumero. In particolare si prestava attenzione alle parole di tre consonanti (oggi potremmo dire di tre sillabe) e alle sei possibili permutazioni, ciascuna delle quali identificava un vertice dell’esagramma. Ho perciò tracciato la figura sottostante.
Su due di quei siti (Wuhan e DaLat) si trovano oggi due importanti laboratori biotecnologici. Un terzo ospita una sede della NASA (Punta Arenas). Gli altri tre sono siti archeologici connessi al mito della Terra Cava (Asgarta, Erks e Akakor). Wuhan è agli antipodi di Erks, Punta Arenas è agli antipodi di Asgarta (sul Lago Bajkal), DaLat è agli antipodi di Akakor.
Una volta stabilizzata la situazione in Palestina, intorno al 1.150 a.C., Giosuè (erede militare di Mosè) assegnò ai suoi fedelissimi il territorio di Gerico, ma essi rifiutarono per ritirarsi nel deserto e vivere sotto le tende tra Gerico ed En-Gadi. Identificati sotto il nome Daniti[1], nel IX secolo a.C. essi costituirono inoltre una comunità in Galilea, erigendo un tempio-monastero sul monte Carmelo.
Una buona metà era tuttavia talmente disgustata dai dissidi sorti con le restanti tribù[2] che preferì migrare verso nord, nel Curdistan, insediandosi in particolare nella vecchia Sciamiramagard (che essi battezzarono “Dan” e che oggi è Van), oltre che nella cosiddetta “Isola dei Beati”, al centro del lago Sevan (oggi sommersa). Qui presero nome di “Recabiti” in onore di Rechab, figlio di Eliezer, figlio di Mosè.
Alcuni testi del XIX secolo fanno riferimento ai Daniti come Assidei/Assidii o Cassidii/Cassiti, descrivendoli come una delle più antiche corporazioni muratorie, presente in Palestina già al tempo di Salomone e coinvolta nell’edificazione del Primo Tempio (IX secolo a.C.).[3] Gli Assidei – sostengono – sarebbero stati depositari di un’antichissima scienza sacra che tramandavano attraverso le loro opere, sotto la guida del leggendario architetto Hiram Abif. Così leggiamo ad esempio in un saggio del 1875 intitolato Rivelazioni Storiche sulla Massoneria:
<Hiram, nel tempio che costruì [il Tempio di Salomone], pose i simboli usati dalla sua associazione. Le colonne Jachin e Boaz stavano ai due lati delle porte del tempio, ed ivi ricevevano il loro salario gli apprendisti e i lavoranti. Il vaso lustrale era sostenuto da dodici buoi, quanti i mesi dell’anno, disposti a gruppi di tre, quanto il periodo delle stagioni. Le sette luci rappresentavano i sette pianeti, o meglio i sette capi dell’Ordine. I settanta pezzi del candelabro significavano le divisioni delle costellazioni, o meglio la mistica compagine dell’ordine stesso, e via discorrendo. Gli operai che egli adunava, disciplinati e obbedienti, ad un solo suo segno si dividevano in Maestri, Lavoranti ed Apprendisti. Dei primi stabilita una [cerchia] eletta, fu questa posta alla custodia del tempio, e le fu data la denominazione di Cassidi o Assidei, o Kadosc, ossia Sacri cavalieri. Da essi più tardi discesero gli Essenii.>[4]
Alcuni membri della fratellanza si sparsero…
<… in Asia Minore e in Grecia, intrecciandosi con le altre diramazioni dei Misteri Cabirici perfezionati [dacché si suppone una coordinazione dalla Fratellanza Bianca Tebana, dalla Confraternita Babilonese di Sarmoung o dall’Ordine di Melchisedek presso il Lago Bajkal]. Assunsero quindi le denominazioni di Compagni di Attalo in Asia e di Operai Dionisiaci in Grecia. Gli stessi portarono i loro statuti pure a Roma, e vissero vita prospera sotto la protezione delle leggi romane: riconoscendo i loro due gradi – Collegio degli Architetti e Collegio degli Artefici, suddivisi all’interno in altri gradi più variati -, gli ordinamenti dell’Urbe riservarono agli Assidei l’erezione dei templi e degli edifici pubblici.>[5]
Fu il secondo re, Numa Pompilio, a istituire a Roma i Collegi degli Artefici (Collegia Artificum), al cui vertice egli pose i Collegi Architettonici (Collegia Fabrorum). I primi membri di questi corpi venivano dalla Grecia (precisamente dall’Attica), invitati da Numa appositamente per l’organizzazione dei collegi.[6] Questi furono affidati alla protezione di Giano, il mitico Re del Lazio che accolse il titano Saturno accettando di condividergli la regalità e i benefici dell’Età dell’Oro. Non è chiaro se tali associazioni fossero dapprincipio accostate al culto di Saturno (Moloch o Baal in Palestina) o se vi approcciassero dopo l’esportazione in Grecia e in Italia.
Tradizionalmente si pone l’operazione di Numa al 714 a.C., e tuttavia è ben noto che la fondazione di Roma – e di conseguenza tutti gli eventi datati Ad Urbe Condita) – fossero stati anticipati al fine di avvicinarli alla fondazione della rivale Cartagine (814 a.C.). Tanto è vero che nella Vita di Numa (parte delle Vite Parallele), lo storico Plutarco pone il sovrano tra gli allievi di Pitagora a Crotone. Considerata l’esistenza su questo piano del filosofo samio dal 575 al 495 a.C., potremmo supporre uno spostamento di tutte le date all’indietro di circa 200 anni.
Asceso al trono all’età di quarant’anni, il regno di Numa si porrebbe perciò all’intorno del 500 a.C.. Ne consegue che eventi accaduti in quegli anni sarebbero stati associati a un sovrano successivo, ovvero a colui che avrebbe regnato nel 500 a.C. secondo la “nuova cronologia”: il despota Lucio Tarquinio. Inferiamo che sarebbe stato Numa (e non Tarquinio) a incontrare la Sibilla Cumana, a ricevere i Libri Sibillini e a istituire l’Ordine dei suoi custodi: i Duoviri Sacri Faciundis. In tal caso, la consigliera di Numa, la “sibillina” Egeria, sarebbe appunto la Sibilla Cumana. E i libri sepolti con il re nel Gianicolo e successivamente bruciati in quanto “pericolosi” sarebbero ancora i Libri Sibillini.[7]
L’evenienza che Numa fosse sabino (originario di Cures), esponente perciò di un popolo cugino a quello ebraico (Ebrei e Sabini venivano entrambi dagli Hyksos), unita ai rapporti coi pitagorici (di cui si attestano i contatti, se non un vero coordinamento, con la comunità essena), ne fanno in effetti il sovrano più adatto all’instaurazione di un Ordine simile a Roma.
Nel 367 a.C. la Lex Licinia Sextia portò i membri dei Sacri Faciundis a quindici, rinominandoli Quindecemviri Sacri Faciundis. Nel I secolo il filosofo Seneca era uno di questi, il ché suggerisce in primo luogo che ereditasse il mandato di Numa, in secondo che gli Assidei romani costituissero una scissione ostile e reietta degli Esseni palestinesi. Altrimenti non sarebbe seguito lo scontro tra i farisei mobilitati da Seneca (gli Ebrei del Patto) e i Desposyni guidati da Giacomo di cui abbiamo detto in altre pubblicazioni.[8] (Cfr. I Leader di Israele.) Scontro protrattosi ai primi anni del XVIII secolo.
Un contributo ai Collegi Romani potrebbe ricondursi inoltre ai Daniti del Lago Sevan. Questi si trovavano entro il Regno di Urartu (oggi Armenia), costituito nell’860 a.C. da quegli stessi Shardana che erano venuti in Libano nel 1200 a.C., dopo l’epidemia di malaria in Sardegna. I sovrani di Urartu erano detti “Sari” o “Seri”, la cui radice “Shar” (lett. “principe”) è la stessa che trasforma “Dan” in “Shardana” (lett. “principi di Dan”). Dacché il geografo alessandrino Tolomeo (100-180 d.C. ca.) adottò lo stesso appellativo, “Seri”, in riferimento alla fratellanza ivi installata.
Nella Geografia, Tolomeo attribuisce ai Seri l’edificazione in Asia della città di Iskedin (Issedon), il ché si allinea curiosamente con la presenza ancora oggi di diversi siti denominati Edinisk (Udinsk) sulle rive del fiume Selenge e dei suoi affluenti, non molto a sud del Lago Bajkal. Edin-Isk è l’inverso di Isk-Edin, e come detto altrove era usanza presso le antiche fratellanze invertire le sillabe per indicare gli stessi concetti o concetti similari.[9] Di nuovo torna l’idea di un coordinamento da parte dell’Ordine di Melchisedek installato sul Bajkal.
Nell’VIII secolo alcuni principi di Urartu si spostarono in Etruria (Toscana e Alto Lazio) spaventati dagli attacchi degli Assiri e richiamati dalle nuove miniere appena scoperte nella regione italiana. Qui avrebbero accelerato la formazione della cultura etrusca, divenendo coloro che i Romani chiamavano princeps, con possibile riferimento al già citato “Shar”.
Nei princeps affondano le radici della Gens Claudia, che diede a Roma gli imperatori Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone (dal 14 al 68 d.C.). Il capostipite, Clauso, aveva installato la propria famiglia a Caere (odierna Cerveteri) finché nel 504 a.C. il suo discendente Attus Clausus (romanizzato in Appio Claudio) si trasferì a Roma con il proprio seguito di parenti, amici e ben 5000 clientes, a ciascuno dei quali furono assegnati due iugeri di terreno (equivalenti a circa mezzo ettaro). Allo stesso Appio Claudio, che fu subito accolto nel patriziato romano, furono assegnati venticinque iugeri. Siamo di nuovo entro il regno di Numa Pompilio.
[1] I Daniti, noti anche come “Tribù di Dan”, integravano elementi della famiglia mosaica ed ex guerrieri mercenari di etnia shardana. Secondo Manetone, Mosé sarebbe stato infatti coordinatore delle truppe mercenarie shardana installate a Goshen, nella regione orientale del Delta, con le quali avrebbe raggiunto un’intesa fraterna. Una volta conquistata Canaan, i Daniti avrebbero costituito due comunità monastiche, rispettivamente nel deserto palestinese tra Gerico ed En-Gadi, e sull’“Isola dei Beati” nel Lago Sevan, oggi sommersa. Più tardi (nel 161 a.C.) i Daniti del deserto si sarebbero amalgamati con la colonia della Fratellanza Bianca sul Mar Morto (a Qumran), divenendo coloro a cui normalmente ci si riferisce come “Esseni”. Cfr. D. Marin, Breve Storia degli Illuminati, SoleBlu 2022, p. 32.
[2] Poiché Mosè era stato scelto da Dio per trasmettere al popolo la Legge, si stabilì inizialmente che la carica di sommo sacerdote spettasse in eterno alla sua discendenza. Tuttavia i più giovani tra gli Israeliti ritenevano poco opportuno affidare tale incarico (che includeva la custodia dell’Arca dell’Alleanza) a coloro nelle cui vene scorreva sangue egizio. Infine, pur non ottenendo la destituzione dall’incarico, la protesta condusse nondimeno alla revisione delle genealogie ufficiali, di modo che nei registri del Tempio i discendenti di Mosé figurassero (falsamente) discendenti di suo fratellastro Aronne. Da allora al termine “Daniti” si preferì il più neutro “Leviti”.
[3]L’Umanitario Giornale Massonico, Anno I, Edizione II, Palermo, 1867. Cfr. anche F. T. e B. Clavel, Storia della Massoneria e delle Società Segrete, Gherardo Casini 2010.
[4] M. G. da C., Rivelazioni Storiche su la Massoneria, Edizione II, Tipografia G. Faziola e C., Firenze, 1875, p. 29.
[5] M. G. da C., Rivelazioni Storiche su la Massoneria, op. cit., p. 31.
[6] F. T. e B. Clavel, Storia della Massoneria e delle Società Segrete, op. cit.
[7] Secondo Tito Livio (Ab Urbe Condita, Lib. XL) e Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, Lib. XIII), i libri furono scoperti casualmente nel 181 a.C. quando un contadino, scavando nel Gianicolo, trovò due casse di pietra: una contenente il corpo del re (ormai decomposto), l’altra i rotoli. In totale vi sarebbero stati 12 libri di diritto religioso e 12 di filosofia greca. Ritenuti pericolosi, su suggerimento del Senato le autorità romane ordinarono che i testi fossero bruciati.
[8] Cfr. Appunti di Storia Proibita, I.P. 2022, #12; e CoCreatori del Cosmo, I.P. 2024, App. C.
[9] Cfr. Appunti di Storia Proibita, I.P. 2022, #16; e Cronache del Dominio, I.P. 2024, p. 42.
Nella cultura induista il simbolo a lato rappresenta il “suono” della creazione o, in altri termini, la frequenza dell’onda d’urto innescata dal Big Bang. Viene comunemente traslitterato in alfabeto latino come OM, e tuttavia, a nostro parere, è più importante come esso si pronuncia, in quanto sempre l’induismo ritiene che il suono dell’OM contenga in nuce le stesse potenzialità dell’onda creativa. Adottando ancora l’alfabeto latino, suddetta pronuncia verrebbe resa in AUMMM, con la triplice M ad indicare che la vibrazione della M deve essere sostenuta per alcuni secondi.
È nostra ipotesi che la stessa pronuncia venisse resa in un precedente alfabeto (oggi perduto) in uso presso il popolo Antenarya, da cui in momenti diversi sarebbero emersi tanto il popolo Indiano (Antenarya > Cultura di Harappa-Mohenjo Daro > Indi) quanto quelli Latino (Antenarya > Sciti > Hyksos > Sabini > Latini) e Germanico (Antenarya > Sciti > Germani). Esplicitamente:
Quando sistemammo la prima volta gli appunti di Mario Miniaci, firma del Corriere e cronista in tempo reale delle ricerche di Alessandro Porro, io e gli altri membri del Rabdo Team ci affidammo all’interpretazione dei protagonisti della prima ora.[1] Il geologo Floriano Villa (che completava il gruppo con la cineasta Luciana Petrucelli), ragionando sulla profondità delle “capsule” individuate da Porro (-400 metri), le collocava temporalmente a 40 Milioni di Anni Fa, entro l’epoca geologica denominata “Eocene”.
All’ennesima rilettura del Diario di Miniaci dovemmo tuttavia dare un certo peso all’affermazione dell’ingegnere secondo cui le capsule “nobili” (le più grandi, Ø = 70 metri), che lui teneva particolarmente sott’occhio, cambiavano talvolta posizione. Erano quindi capaci di attraversare terra e roccia, dacché parimenti si sarebbero potute costruire in superficie, facendole quindi penetrare il sottosuolo. Perciò l’età dello strato geologico che le accoglie non corrisponde per forza all’età delle strutture.
Le analisi dei miti sumeri esposte in Cronache del Dominio hanno rivelato l’applicazione alla cosmogonia di una curiosa “inversione di termini”. Gli esseri umani, specie di stirpe reale, cominciano a un certo punto a presentarsi come “dèi” e “creatori”. Essi lavorano con il sangue di un primate, verosimilmente il Dinopithecus Ingens, mescolandolo con sangue umano e generando un nuovo essere che potremmo chiamare Dinopithecus Sapiens. In altri termini, i tanto acclamati Anunnaki (gli dèi del mito sumero) eravamo nient’altro che noi.
Dinopiteco Ingens
A quel punto sono i Dinopitechi a essere chiamati “uomini”. Essi lavorano per gli “dèi” e ne risparmiano la fatica, finché un bel giorno la misura è colma e scoppia una guerra tra specie. Manetone, raccogliendo le memorie egizie, riferisce di un’età civile o “regno degli dèi” tra il 28.375 e il 14.475 a.C., a cui sarebbe seguita la rivolta e l’inversione di ruoli. I nuovi “uomini” (i Dinopitechi) diventano la specie dominante e sono loro stavolta a proclamarsi “dèi”, sebbene Manetone li surclassi e li denomini “semi-dèi”, collocando il loro dominio tra il 14.475 e il 13.220 a.C. Nel 13.220 a.C. gli Homo Sapiens capovolgono le sorti del conflitto e – almeno sul piano materiale – la guerra è vinta, coi Dinopitechi costretti a rifugiarsi sottoterra entro le capsule e in stato di ibernazione.
A quanto riferiscono medium e contattisti, le scimmie avrebbero tuttavia “semplicemente” abbandonato i loro corpi, intraprendendo una nuova esistenza in forma astrale e concedendo il privilegio di comunicare con loro a pochi eletti scelti tra gli umani. Da questi si farebbero conoscere come gli Antichi. D’altro canto la civiltà degli Homo avrebbe subito un duro colpo appena 600 anni dopo la vittoria (nel 12.600 a.C.), quando una cometa del diametro di alcune decine di chilometri penetrò l’atmosfera e si spezzò in tre frammenti che impattarono in altrettanti siti del Canada orientale.
Lo spostamento dei poli geografici, il rebound per il peso sottratto dalle vecchie calotte, la conseguente attività sismica e vulcanica, la variazione delle fasce climatiche e la sospensione della polvere in atmosfera contribuirono all’estinzione della megafauna. Addio al Megaterio, al Mammut (con opportune eccezioni), allo Smilodonte, all’Orso delle Caverne, al Brontoterio, al Megacero, e a tanti altri… e anche la specie umana si trovò sull’orlo dell’estinzione.
Il romanziere Howard P. Lovecraft, che aveva letto degli Antichi nel Necronomicon di Abu al-Haitham, collocava la loro esistenza materiale a decine di milioni di anni fa, dacché parrebbe che come Villa avesse accolto una valutazione sulla profondità delle capsule, ascrivibile – per esclusione – a prospezioni effettuate negli anni ’20 dal generale Cesare Bardeloni, il primo a costruire un “rabdomante tecnologico”. Lovecraft nomina infatti per la prima volta gli Antichi, collocandoli temporalmente, ne Le Montagne della Follia, pubblicate nel 1931. «Nella sua dimora a R’lyeh, il morto Cthulhu attende sognando».[2] Sugli stessi temi il Solitario di Providence potrebbe aver udito dal nonno materno, Whipple Van Buren Phillips, di cui si sospetta l’appartenenza alla Società Teosofica.
È interessante che secondo Lovecraft gli Antichi avessero un cervello “a cinque lobi”, laddove Alessandro Porro evidenzia l’inscrizione di un simbolo “a cinque lobi” nei memorabilia custoditi nelle capsule. Ancora, ne La Casa delle Streghe (1932), l’autore riferisce che alcuni di loro sarebbero fuggiti con i loro corpi fisici nello spazio, approdando su un pianeta con tre soli collocato tra le costellazioni dell’Idra e della Nave Argo, a cui evidentemente – benché non ammesso – si ispira la trilogia Memoria del Passato della Terra del cinese Liu Cixin, da cui è stata tratta la serie TV Netflix Il Problema dei 3 Corpi. La contingenza spiegherebbe perché il fenomeno ufo si trovi sovente intrecciato allo spiritismo: se gli Antichi ascesi comunicano con certi umani, perlopiù appartenenti alla Rosa+Croce, certamente lo fanno più volentieri con i loro parenti stretti dello spazio profondo.
Tra i “contattisti” della prima ora vi fu certamente l’atlante Orfeo (n. 3.760 a.C.), così non sorprende che Abu al-Haitham avesse compilato il Necronomicon prendendo spunto dai Manoscritti Pnakotici rinvenuti nei primi anni ’90 del X secolo tra le rovine di Imer, nell’attuale Oman. Tra il 2.700 a.C. e il 1.150 a.C. “Imer dalle mille colonne” era infatti la prosperosa capitale del Regno di Magan o Punt, a cui persino gli Egizi guardavano con timore e ammirazione. E Punt era la principale colonia a sud della remota Atlantide.
La prima spedizione nota degli Egizi a Punt risale al regno del faraone Sahura (2487-2475 a.C., V dinastia) ed è attestata dalla Pietra di Palermo. L’ultima è descritta invece nel Papiro Harris, dell’epoca di Ramses III (1184-1153 a.C., XX dinastia). Gli Egizi importavano mirra, incenso e babbuini, scambiandoli con farina, birra, vino e carne.
Come si vede in cartina, il regno occupava l’estremità settentrionale del Corno d’Africa e quella meridionale della Penisola Arabica. Esso includeva anche l’isola di Panchea (oggi Socotra, al largo dello Yemen) di cui racconta Evemero nella Sacra Historia.
Regno di Punt
Nato in Sicilia e cresciuto professionalmente alla corte del re macedone Cassandro I, lo storico e filosofo Evemero da Messina (330-250 a.C.) scrive riguardo la natura degli dèi. Nell’opera citata egli afferma di aver visitato Panchea personalmente e in particolare il Tempio di Zeus presso la città di Panara. All’interno dell’edificio vi era ancora conservata una stele di oro puro risalente a migliaia di anni prima, nella quale, per mezzo di caratteri geroglifici (non per forza egizi), i re dei tre “popoli ancestrali” (ovvero gli antenati di tutti gli altri), Atlanti, Sciti ed Etiopi, testimoniavano sul proprio onore la vera origine delle divinità. Secondo Evemero non ci sarebbe stato alcun riferimento né ad abitanti di altri mondi, né ad entità sovrannaturali compartecipi della creazione. Vi era scritto al contrario che gli dèi «erano stati in origine uomini molto potenti, che si erano successivamente guadagnati la venerazione dei propri concittadini».[3]
Che Punt fosse una colonia di Atlantide è evidente, giacché gli Egizi si riferivano a entrambe con lo stesso nome: TaNeteru o TaManu. La distruzione di Irem per i peccati dei suoi abitanti (come riporta il Corano) è poi una chiara trasposizione della distruzione di Atlantide raccontata da Platone.
Ta+Manu:
Ta = Terra
Manu = stessa radice di Menes, Meni, Manes, Minosse, Manu, col significato di “fondatori”. Si osservi che la “u” finale in lingua egizia denota la forma plurale.
Quindi TaManu è la Terra dei Fondatori
Ta+Neteru:
Ta = Terra
Neteru = Dèi
Quindi TaNeteru è la Terra degli Dèi
Il racconto coranico della distruzione di Irem vede contrapposti il profeta Hud e il sovrano Shaddad. Hud è il biblico Reu, figlio di Peleg (eroe eponimo dei Pelasgi/Atlanti), così come Punt è figlia di Atlantide. Dall’unione dei due nomi si può ricostruire un originale *Rehud, assimilabile al gaelico Ruadh, inglese Red, lett. “rosso”.
Dal libro dei Giubilei apprendiamo che Reu viene al mondo quando comincia la costruzione della Torre di Babele, e vi si oppone allo stesso modo in cui Hud si oppone al Re di Irem Shaddad. Babele e Irem vengono entrambe distrutte. Al pari dei babilonesi, anche gli abitanti di Irem erano accusati di sfidare Dio con edifici troppo alti.
Se Irem = Babele, allora Shaddad = Nimrod, ovvero l’accadico Naram Sim. La Bibbia attribuisce infatti a Nimrod l’edificazione della rinomata Torre. Si ricordi che al tempo “Babele/Babilonia” era un appellativo di Kish; solo intorno al 1900 a.C. la più nota Babilonia (destinazione dell’esilio giudaico) fu edificata dagli Amorrei.
Una cronologia approssimativa potrebbe essere la seguente:
2700 a.C.: Fondazione della colonia. Nello stesso periodo gli Atlanti (dallo Jutland) mandano architetti in Egitto per assistere all’edificazione delle piramidi;
2400-2300 a.C.: Inizio del controllo accadico sulla regione;
2120 a.C.: Inizio del periodo indipendente;
1530 a.C.: Inizio del controllo cassita;
1150 a.C.: Rivolte popolari/Caduta.
Necronomicon a parte, non vi è più nulla che giunto fino a noi faccia menzione degli Antichi. Vi fu tuttavia un rinnovato impegno nella comunicazione medianica da parte dei fratelli rosacroce al tempo in cui la loro confraternita si apprestava a scomparire (fine del XVII secolo).
Come espresso all’Appunto #5[4], lo scorporamento del Gruppo di Toledo dalla Fratellanza di Babilonia (141 a.C.) si produsse in duemila anni di scontri in cui le squadre coinvolte cambiarono volto nel tempo finché nel XVII secolo si poterono identificare da un lato nei Desposyni (sostenuti dalla Rosa+Croce) e dall’altro negli Anicio-Flavi (sostenuti dalla Massoneria).
Nel 1689 la Gloriosa Rivoluzione strappava l’Inghilterra agli Stuart (Desposyni) per consegnarla agli Hannover (Anicio-Flavi), mentre nel 1717 la costituzione della Grande Loggia di Londra segnava il definitivo assorbimento della Rosa+Croce nella Massoneria.
Trovandosi sconfitta sul piano materiale, la Rosa+Croce (o quanto ne rimaneva) scelse il giovane Gianfilippo Spinucci affinché fosse edotto ai misteri più alti nel corso di una cerimonia sul lago Bajkal. La famiglia del nobile fermano rientrava nel ramo desposyno, mentre è probabile che venisse mandato sul Bajkal perché in prossimità delle sue rive si trovava l’insediamento ipogeo di Asgartha, sede primeva dell’Ordine di Melchisedek. Le ragioni di tale ipotesi saranno chiarite più avanti.
Dal 1881 al 1934, da una serie di sedute medianiche nella Villa Mancini-Spinucci di Fermo, il palesarsi di un’entità auto-appellatasi Scienziato della Torre dei Miracoli condusse alla realizzazione di alcuni macchinari capaci di trarre energia dal vuoto quantico (e a quanto pare di tante altre stranezze). A questi si intrecciano gli avvistamenti ufologi: sui cieli italiani a partire dai primi anni ’20, e su quelli americani dalla metà dei ’40. Al contempo, tra laboratori segreti gestiti da esponenti della Rosa+Croce e laboratori ufficiali diretti per lo più dal governo americano, si assiste ad un botta e risposta in cui intervengono agenzie di spionaggio e controspionaggio di svariati paesi.
La stranezza a questo punto è che a guidare le azioni della squadra rosacrociana non sono tanto accurate pianificazioni e costruzioni teoriche, quanto i consigli e talvolta i comandi di entità canalizzate dai loro medium. Ai loro colpi, i massoni rispondono con operazioni di spionaggio industriale e retro-ingegneria.
Non è mio compito qui la trascrizione delle singole stoccate che danno corpo a questo incontro di scherma. Riportate in dettaglio nel lavoro di Stefania Marin, Verso una Nuova Co-Scienza, le trovate in sintesi nella mappa concettuale che potete ritagliare e comporre alle pagine seguenti. È mio intento piuttosto mettere in luce nuove connessioni con quanto esposto nelle Cronache del Dominio, riguardanti in particolare la controparte americana di Asgharta. La tradizione tibetana contempla infatti una seconda città sotterranea all’altro capo del mondo, chiamata Erks.
Lo schema include l’Esperimento Philadelphia, condotto negli USA tra il 1931 e il 1943 e avente a oggetto il teletrasporto di una nave da guerra. Lo stesso non viene citato nel libro di Stefania, ma potete approfondirlo nei libri di Charles Berlitz (Esperimento Philadelphia e Senza Traccia), oppure in sintesi nell’appendice a D. Marin, Un’Iniziazione Durata Trent’Anni.
Il primo a far conoscere Erks fuori dal Tibet fu nel 1969 un monaco buddhista che si faceva chiamare Saarumá (antico inglese per “uomo abile”). Questi si trovava tra Córdoba e Buenos Aires alla ricerca di un “oggetto di potere”, un bastone di pietra chiamato simihuinqui (in quechua, “pietra parlante”) appartenuto al civilizzatore KukulCain e segnalato da quelle parti.
Saarumá era anche «un medico di valore, edotto in un’antica tecnica della tradizione tibetana nota come bodkyi gsoba rigpa o sowa rigpa. È basata su un approccio olistico dell’essere umano, partendo dal presupposto buddista che ogni malessere fisico (e ogni male, in genere) ha un’origine non-fisica da ricercare nell’ignoranza, l’attaccamento e l’avversione. Questa tradizione terapeutica utilizza sia farmaci derivati da sostanze naturali che modifiche nella dieta e terapie fisiche come l’agopuntura. Saarumá era specializzato nella cura della colonna vertebrale: per lui la perfetta salute dell’uomo dipendeva interamente dalla corretta conformazione e posizione delle vertebre, e quasi tutte le malattie potevano essere guarite o quanto meno contenute se si sapeva su quale vertebra mettere le mani e come farlo esattamente, per poter così sbloccare il flusso di energia che circolava lungo la colonna vertebrale».[5]
Per cinque anni, tutte le mattine da lunedì a venerdì Saarumá approfittò della sua presenza a Buenos Aires per insegnare la propria arte a cinque medici[6] e a un chiropratico autodidatta con dubbie doti medianiche e un ego smisurato quanto la sua propensione alla menzogna: Ángel Cristo Acoglanis (1924-1989). Quest’ultimo era anche l’affidatario dello studio in cui si svolgevano le lezioni, sito in casa delle sorelle Sonia e Mercedes Anchorena, sue ex pazienti e ricche proprietarie terriere in capo ad una delle più prestigiose famiglie argentine.
Al principio del 1974, Saarumá affermò di aver trovato lo simihuinqui e fece ritorno al proprio Paese. Pare in effetti che la reliquia fosse stata rinvenuta ai piedi del Monte Uritorco da Orfelio Ulises Herrera nel 1934. L’uomo era un maestro di scuola, ma soprattutto apparteneva a una società esoterica di derivazione ermetica i cui membri erano perlopiù docenti dell’Università Nazionale di Córdoba. Intorno al 1940 il gruppo aveva accolto il giovane Guillermo Alfredo Terrera (1922-1998), studente alla stessa Università di Córdoba e più tardi docente di sociologia all’Università di Buenos Aires. A lui sarebbe stato affidato (nel 1958) lo simihuinqui, ereditato alla sua morte dal primogenito Guillermo Jr.
Saarumá si fece andar bene che la reliquia restasse a Terrera e non si fece più vedere. Egli non aveva rivelato la posizione di Erks, salvo spiegare che si trovava agli antipodi della più “chiacchierata” Asgharta, di cui comunque non erano note le coordinate. Laddove Asgharta indirizzava le “influenze” maschili, Erks incanalava le “energie” femminili. Il lama aveva inoltre trasmesso svariati mantra e alcune nozioni sulla struttura dell’irdin, la lingua primordiale degli antichi Antenarya, la civiltà tecnologica sopravvissuta al meteorite del 12.600 a.C. Cionondimeno Acoglanis ne approfittò per dichiarare in pubblico di canalizzare la voce del guardiano di Erks, il cui nome era non a caso “Saruma”. Con questa scusa invitava i turisti a salire con lui sull’Uritorco, dal cui terrazzo in località Los Terrones intonava i versi appresi dal tibetano e attendeva il tramonto per mostrare loro le luci di Erks. Particolari variazioni nella temperatura, nell’umidità e nella densità dell’aria deformavano e riflettevano le luci della vicina San Marcos Sierras, della diga idroelettrica “Arturo Illia” e dei fari delle automobili sulle strade maggiori (statale 38 e regionale 17). Per gli ingenui, erano manifestazioni della città eterica e dei suoi spiriti; per Acoglanis era moneta sonante.
Il chiropratico tentò altresì di cooptare Terrera, frequentandolo per un anno e mezzo tra il 1985 e il 1986 e cercando senza riuscirci di farsi cedere il bastone del potere per impiegarlo nelle folkloristiche “cerimonie” da lui imbastite a Los Terrones.
Da Saarumá, Acoglanis aveva infine probabilmente appreso del “Tempio della Sfera”, il centro spirituale di Erks che custodiva al suo interno un «particolare sistema di comunicazione costituito da tre specchi» che avrebbe risposto ad «un triangolo energetico in cui due donne facessero corona al sacerdote»[7], modalità che richiama evidentemente il “triangolo sacro” da noi trattato ne Il Tempio degli Illuminati in merito alla tradizione ulvunga. C’è tuttavia la possibilità che questi concetti venissero dalla lettura de Il Segreto delle Ande (1961) del contattista George Hunt Williamson (alias Brother Philip), membro quest’ultimo del gruppo di ricerca di Costantino Cattoi e tramite Cattoi in possibili rapporti con Cesare Porro.
Diversamente da Acoglanis, noi sappiamo che Asgharta era la sede dell’Ordine di Melchisedek, poi importato da Sargon a Babilonia (Kish) e mezzo millennio dopo tradotto nella (Nuova) Babilonia di Hammurabi (da qui chiamato Fratellanza di Babilonia). Risalendo indietro nel tempo e riconducendo la cultura di Sargon (gli Accadi) alle proprie origini, ci troviamo inevitabilmente al centro spirituale degli Antenarya, antenati comuni di Sciti, Arii e Atlanti. Sul lago Bajkal per l’esattezza.[8]
Potremmo prendere a riferimento il villaggio di Barguzin, sulla sponda sud-orientale, fondato nel 1648, quindi soltanto 28 anni in anticipo sull’iniziazione – proprio ai margini del Bajkal – di Gianfilippo Spinucci. Se dessimo retta a Saarumá, dovremmo cercare Erks agli antipodi, con semplici calcoli o – se siamo pigri – sfruttando la praticità di applicazioni online quali Antipodes Map.[9] Digitando “Barguzin” sulla casella di sinistra, ecco apparire sulla destra “Punta Arenas”, nella Tierra del Fuego, in Cile.
La città ospita l’Istituto Nazionale Antartico e costituisce il punto di partenza più utilizzato dalle spedizioni scientifiche dirette in Antartide, compresa la NASA che ha una propria sede permanente ai margini dell’abitato. Stiamo parlando della stessa NASA che dopo la 2a Guerra Mondiale aveva acquisito i laboratori dell’Ahnenerbe in Germania e quelli eventualmente ancora in Italia del Gabinetto RS/33. Ed è la stessa che nel 1961 aveva cercato di coinvolgere il figlio di Cesare Porro, Alessandro, il cui apparecchio (il Rabdomante Elettronico) costituiva un balzo in avanti rispetto al prototipo del padre (Rabdomante Meccanico).
Il concetto di città speculari agli antipodi è stato da noi trattato in Cronache del Dominio riguardo la stirpe di Ca-In (Caino), che dall’eD-eN in Asia avrebbe raggiunto No-De in Sud America. Qui, l’erede di Ca-In, Ku-Ku-L-Ca-In, avrebbe organizzando la cultura In-Ca, mentre suo figlio Enoch fondava nello Yucatan la città di T-Enoch-Titlan. Già nelle Cronache ponevamo in evidenza l’inversione dei gruppi consonantici, laddove le vocali – raramente trascritte e soggette ai mutamenti della lingua parlata – non potevano costituire un riferimento affidabile.
Se consideriamo il nome Asgharta[10], è opportuno ripulirlo del prefisso “ta”, che nelle lingue più antiche (come l’analogo “da”) significava banalmente “terra”. Il gruppo consonantico si riduce pertanto a S-GH-R, dove dobbiamo rammentare la tendenza di “GH” a mutare in “CH” (equivalente di “K”). Ne consegue che il gruppo consonantico di Erks (R-K-S) può considerarsi l’inverso di quello di Asgharta (S-K-R).
Il primo rituale celebrato ad Asgharta era servito a trasferire in tale sede il “carattere” del Polo Nord; dacché, immaginando uno spostamento rigido della griglia energetica del pianeta, il “carattere” del Polo Sud sarebbe passato agli antipodi di Asgharta, ad Erks appunto.
L’idea è presente nel nome di un gruppo esoterico fondato da Terrera: l’Escuela Hermética Primordial de las Antípodas.
Il discepolo di Acoglanis, José Trigueirinho (1931-2018), già operante come medium prima dell’incontro con il “maestro” (nel 1987), potrebbe aver scorto la veridicità dell’esistenza di Erks senza però essere in grado di localizzarla. Si sarebbe perciò attenuto alle supposizioni del chiropratico, accettando la collocazione sull’Uritorco.
Tornando al tema principale, non ci è dato sapere ove conduca la battaglia tra Desposyni e Anicio-Flavi, né se si possa tra questi riconoscere un buono e un cattivo, anche se d’istinto starei con i primi. Dal 1933 in questa lotta è stato coinvolto il fisico Ettore Majorana, di cui Stefania testimonia gli esperimenti, compreso quello “di 4a fase” in cui lo scienziato fu al contempo soggetto e oggetto. In questo frangente, un raggio a sezione quadrata proiettato da un piccolo macchinario produceva un aumento della sintropia, ovvero metteva ordine nei sistemi complessi.
Quando parliamo di sistemi biologici, mettere ordine vuol dire ringiovanire. Dopo le rose e un cane, Majorana avrebbe provato su sé stesso. E stando alle foto che circolano su di lui dal 2006 – scattate nello stesso anno, quindi prima dell’AI – sembrerebbe esserci riuscito. Nato nel 1906, avrebbe dovuto avere cent’anni, ma ne dimostra al massimo quaranta. Ciò che più importa, comunque, è che nel 2006 ancora si combatteva.
Cosa significa questo? Che siamo in procinto di incontrare gli Antichi? Che essi riprenderanno i corpi abbandonati nelle capsule? O dovremmo credere che i loro fratelli facciano ritorno dal pianeta dei tre soli?
Interessante infine che Majorana parlasse al proprio allievo – Rolando Pelizza – di una 5a fase, in cui il macchinario avrebbe permesso l’apertura di un canale attraverso altre dimensioni. Potrebbe trattarsi di un canale fisico, simile a quanto prodotto a Philadelphia, o – intendendo la frase in senso gergale-esoterico – la possibilità di trascendere il corpo allo stesso modo in cui avrebbero fatto gli Antichi 15.250 anni fa.
[2] La loggia rosacrociana dei Polari profetizzò per il 1933 proprio il ritorno di “colui che attende”. Cfr. Zam Bhotiva, Gianfranco De Turris & Marco Zagni, Asia Mysteriosa: La Confraternita dei Polari e l’Oracolo della Forza Astrale, Arkeios 2013.
[8] Mentre scriviamo, veniamo informati che la setta cristiana russa dei “Vecchi Credenti” (fondata nel 1666) indicava Agharta con la parola “Belovodye”, la stessa che in termini più o meno vaghi designa le montagne a ridosso del Bajkal.
[10] Abbiamo preferito adottare la forma più estesa Asgharta, meno comune di Agharta ma verosimilmente più antica. Che nel tempo si perda una lettera (in questo caso la “S”) è certamente più probabile che acquisirla.
Tra i testimoni, in senso forte, di una visione alta della politica in età rinascimentale possiamo ricordare Thomas More (1478-1535), colto umanista, impegnato nella vita politica inglese, che ricoprì diverse cariche, tra cui quella di Lord Cancelliere, che rappresentava un ruolo “di garanzia”, responsabile dell’indipendenza delle corti di giustizia. Di profonda fede cattolica egli rifiutò, nel 1534, di accettare l’Atto di Supremazia, con il quale Enrico VIII si proclamava capo supremo della chiesa d’Inghilterra. Per questo rifiuto fu condannato a morte con l’accusa di tradimento. Elevato alla gloria degli altari dalla chiesa cattolica nel 1935, come martire, è commemorato dal 1980 anche dalla chiesa anglicana e nel 2000 fu proclamato Patrono dei governanti e dei politici, da Giovanni Paolo II. Tra gli scritti politici che possono avere una valenza pedagogica possiamo cogliere alcuni passaggi della sua Utopia, termine da lui stesso coniato per indicare un “non luogo” in cui si realizzi una sorta di governo ideale. Il punto di partenza dell’opera è un’acuta e penetrante analisi della situazione politica reale, di cui si colgono alcune contraddizioni, a partire dalla pena capitale comminata ai ladri, sia perché dipende da ingiustizie che dovrebbero essere sanate in radice[1], sia soprattutto perché in questo modo non si affronta il problema fondamentale, che è di natura educativa:
«Se non mettete rimedio a tali mali, è vano vantar la giustizia esercitata a punir furti, giustizia più appariscente che giusta o utile. Poiché, quando lasciate che costoro siano educati molto male e i loro costumi fin dalla giovinezza si corrompano a poco a poco, si devono punire, è evidente, allorché, fatti uomini, commettono quelle infamie che la loro fanciullezza annunziava… Ma che altro con ciò fate, di grazia, se non crear dei ladri per punirli voi stessi?[2]»
L’impianto narrativo dell’opera è imperniato su un’ipotetica relazione di Raffaele Itlodeo, un dignitario che avrebbe solcato i mari con Amerigo Vespucci, e si caratterizza per il racconto di usi e costumi di altri popoli, come i Persiani, in cui i ladri sono condannati a restituire il maltolto ai legittimi proprietari e a compiere lavori forzati, per risarcire i derubati e la società. Si sottolinea in ogni modo il valore medicinale della pena, la quale «non colpisce se non per distruggere le colpe, ma salva gl’individui e li tratta in modo da forzarli ad essere buoni e risarcire col resto della vita tutto il male arrecato prima»[3]. Tutta la parte del testo dedicata alla narrazione degli usi e costumi del regno di Utopia non va intesa come un trattato di filosofia politica (pur avendo anche questa valenza), ma soprattutto nella prospettiva di una sorta di pedagogia sociale, quanto meno in embrione. Infatti, se ci poniamo sul piano filosofico-politico, la proposta di uno stato perfetto ma irrealizzabile non sarebbe di grande vantaggio, se non come punto di riferimento per una progettazione di tipo rivoluzionario. Se invece ne consideriamo le prerogative da un punto di vista pedagogico, il testo recupera una fruibilità diversa, sia come fonte ispiratrice di specifiche riforme (un progetto politico completo, di cui provare a realizzare alcune parti), sia per individuare obiettivi educativi da promuovere (una Paideia[4] sociale e civile), al di là della possibile di incidere sulle istituzioni politiche. Le leggi degli Utopiani sono poche e chiare, tali per cui «non solo vi è onorato e ricompensato il merito, ma anche l’uguaglianza è stabilita in modo che ognuno ha in abbondanza di ogni cosa»[5]. Il cardine di tutto l’ordinamento è l’abolizione della proprietà privata, il che richiama certamente la comunione dei beni di cui parla Platone nella Repubblica, ma anche le modalità di organizzazione della comunità cristiana delle origini[6] e la dottrina agostiniana della destinazione universale dei beni della terra. Di qui la convinzione circa il fatto che «non è possibile distribuire i beni in maniera equa e giusta […] senza abolire del tutto la proprietà privata»[7]. Tutti lavorano per contribuire al bene comun, ma – non essendoci parassiti sociali – sono sufficienti sei ore di lavoro, in modo che tutti abbiano modo di dedicarsi alla cura dei beni spirituali, che rappresentano il bene più eccellente e più strettamente connesso alla felicità autentica e che deve essere accessibile a tutti. Sono comunque esentati dal lavoro coloro che mostrano una speciale attitudine allo studio e svolgeranno il proprio servizio dedicandosi a questo a tempo pieno, immaginando che possano essere loro i “produttori” di nuova cultura, sempre che si dimostrino all’altezza di una così grande responsabilità:
«Ché se qualcuno di essi vien meno alle buone speranze che ha dato di sé, è ricacciato fra gli operai e, al contrario, non è raro che un manovale dia le sue ore di ozio con tanto impegno alla letteratura e tanto vi progredisca con la sua diligenza che, tolto al suo mestiere, venga promosso nella categoria degli uomini di lettere. Di tra questi studiosi vengono scelti gli ambasciatori, i sacerdoti, […] e da ultimo il principe[8].»
Si tratta di un approccio pedagogico che da un lato è fortemente egualitario (soprattutto sul fronte della distribuzione dei beni materiali), ma dall’altro è fortemente meritocratico (soprattutto in ordine al ruolo da giocare nella produzione dei beni spirituali), con buone metodologie per incentivare il merito e favorire l’emergere dei talenti personali, facendo in modo che le persone siano motivate a servirsene in vista del bene comune e non per brama di ricchezza. In questo modello di intellettuale “utopiano” possiamo anche leggere una lucida critica di alcuni aspetti che caratterizzavano l’intellettuale umanista, spesso egocentrico e immerso nelle vicende “mondane” al punto da rischiare di esserne schiavo o di dipendere in modo eccessivo dalle condizioni concrete che garantiscono la sua sopravvivenza materiale. La cellula di base della società è la famiglia, concepita in modo “allargato”, con la presenza degli anziani, e in una prospettiva comunitaria: i pasti si prendono in comune, sia perché lo stato provvede a che ciascuno abbia ciò che è necessario, sia per coltivare attraverso la convivialità comunitaria il senso di appartenenza alla comunità sociale. Il divorzio è ammesso a ben precise condizioni, mentre l’adulterio è severamente punito.
Il percorso educativo comporta sia l’istruzione culturale, sia una profonda educazione morale che miri alla costruzione di abiti virtuosi: «s’adoprano infatti, con ogni solerzia, a istillar nell’animo dei piccoli, ancora teneri e cedevoli, idee senz’altro giuste e utili per conservar la loro repubblica»[9]. L’idea che una sana educazione morale sia alla base della vita associata e costituisca il tesoro più prezioso per una città era stata affermata con chiarezza da Platone e Aristotele (che parlavano della virtù della giustizia), è stata ripresa dai padri della chiesa e dai dottori del medioevo e conclude il percorso narrativo dell’Utopia, quasi a rappresentare l’eredità spirituale che giungerebbe da questo “non luogo” a tutti gli uomini di buona volontà. È evidente che – stanti le sue vicende biografiche – non fu possibile a More realizzare nella città degli uomini gli ideali che aveva così chiaramente esposto, ma gli fu possibile testimoniare con la propria vita e con la propria morte quanto li avesse profondamente interiorizzati.
[1] Così si esprime More: «si stabiliscono infatti, per chi ruba, pene gravi, pene terribili, mentre meglio era provvedere a qualche mezzo di sussistenza, acciocché nessuno si trovasse nella spietata necessità, prima, di rubare, e poi di andare a morte» (T. Moro, Utopia (1516), tr. it. Laterza, Bari 1986, p. 21).
[4] La Paideia è il modello educativo implicito nella struttura di riferimento (reale o immaginaria che sia, quale una civiltà o un ciclo letterario). I poemi omerici trasmettono ad esempio la paideia degli eroi achei e troiani: l’aspirazione a eccellere, la ricerca della gloria, l’onore, l’ospitalità, lealtà e fedeltà, coraggio, saggezza e astuzia, pietà e rispetto per gli dèi. [Nota Aggiunta]
[6] «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2, 44-45). Cfr. sopra il capitolo dedicato alla pedagogia della salvezza, nella parte in cui si espongono le scritture neotestamentarie.
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