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Owain Ddantgwyn, alias Artù

Owain Ddantgwyn, alias Artù

(di Graham Phillips, estratto da La Ricerca del Santo Graal, Sperling & Kupfer 1998)

[Nell’Appunto #1[1] abbiamo accennato al noto re britannico Artù e alla sua possibile identificazione con il guerriero veneto (o celto-veneto[2]) Owain Ddantgwyn, re del Gwynedd e del Powys detto “Arth” (lett. “Orso”). Se lì ci siamo affidati all’intuizione di Piero Favero da lui riportata ne L’Alba dei Veneti, qualche tempo dopo la prima edizione degli Appunti siamo entrati in possesso di una copia de La Ricerca del Santo Graal, ove Graham Phillips, sulla base di una ricerca puntigliosa da lui condotta in tandem con Martin Keatman, fornisce solide fondamenta alla medesima identificazione; N.d.C.]

Durante il medioevo, tra il XII e il XV secolo, i racconti aventi per soggetto il potente Re Artù furono numerosi, e assicurarono celebrità paneuropea a Camelot e ai Cavalieri della Tavola Rotonda. Molte tematiche di questi racconti arturiani sono con ogni evidenza invenzioni, ma un manoscritto assai più antico, compilato secoli prima che queste storie fantastiche fossero scritte, suggerisce che Re Artù abbia avuto esistenza reale. Nella Historia Brittonum, redatta dal monaco gallese Nennius verso l’830, Artù è citato semplicemente quale il guerriero britannico che sconfisse gli invasori anglosassoni nella battaglia di Badon, dopo che i Romani si erano ritirati dall’isola nel V secolo. Stando a quanto si legge nella Historia ecclesiastica gentis anglorum compilata dal Venerabile Beda, storico dell’VIII secolo anglosassone, la battaglia di Badon avrebbe avuto luogo nel 493, nell’alto medioevo, un turbolento periodo della storia britannica del quale restano pochi documenti scritti.

Dal momento che lo scontro in questione fu un evento storico, ricordato anche dal monaco e cronista britannico Gilda il Saggio nel suo De excidio et conquestu Britanniae ac flebili castigatione in reges, principes ac sacerdotes, scritto attorno al 545, quando era ancora ben viva la memoria della battaglia, molti storici oggi ammettono che Artù potrebbe essere stato davvero un capo britannico che guidò una delle ultime controffensive contro gli anglosassoni invasori. Inoltre, non soltanto sembra che un Artù storico sia effettivamente esistito, ma anche che alcune delle narrazioni a lui collegate possano essersi basate su eventi storici; così, per esempio, la leggenda di Excalibur può aver tratto origine da un antico rito funerario celtico.

Gli anglosassoni, originari della Germania e della Scandinavia, riuscirono a conquistare tutta l’Inghilterra, e i britanni, i celti indigeni, furono relegati in quello che è oggi il Galles. Siccome Artù a quanto sembra era stato un capo dei britanni, le leggende relative alle sue imprese pare siano sopravvissute soprattutto nel Galles, prima di diventare una ricca fonte di ispirazione per i romanzi medievali a partire dal XII secolo. L’origine di alcune di queste tematiche nel contesto dei racconti arturiani medievali può darsi debba pertanto reperirsi nell’antica tradizione gallese o celtica. […]

Il guerriero Artù, citato nella cronaca di Nennius scritta verso l’830, è esistito realmente? Molti studiosi si rifiutano di prendere in considerazione questa ipotesi, sostenendo che i romanzi arturiano sono troppo fantasiosi. Tuttavia, l’Artù di Nennius non è inserito in un contesto di magia e mistero, come invece in successivi racconti medievali, ma è ricordato in termini storici. Nennius cioè, lungi dal presentare un Artù romanzesco, si limita a descrivere un capo britannico che aveva combattuto con successo contro i sassoni.

Per contestualizzare il ruolo attribuito da Nennius ad Artù, è opportuno accennare alla caduta dell’Impero Romano e alle conseguenze che essa ebbe in Britannia.

Nel 395, l’Impero Romano fu diviso in due parti, l’Impero d’Occidente, con capitale Roma, e l’Impero d’Oriente, governato da Costantinopoli, l’attuale Istanbul. Nei primi anni del V secolo si profilò il crollo dell’Impero d’Occidente; sebbene esso resistesse per qualche altro decennio ancora, la sua struttura era definitivamente minata. La sua fine ebbe inizio con disordini causati dagli unni dell’Asia centrale. Sospinta inizialmente da una serie di disastrosi raccolti, questa fiera e bellicosa popolazione si scagliò contro i goti occidentali, che furono scacciati dalle loro terre. A loro volta, i goti vinti varcarono il Danubio e il Reno, obbligando altre etnie a migrare verso Occidente. Roma era ormai ridotta sulla difensiva, e le orde barbariche di ogni parte d’Europa cominciarono a penetrare attraverso le frontiere dell’Impero. Alarico, re dei visigoti, calò in Italia nel 401 e nel 408 pose l’assedio all’Urbe stessa; per respingere l’assalto, i romani si trovarono nella necessità di ritirare truppe da avamposti coloniali in Britannia.[3]

Ampiamente ridotte le forze romane, in territorio britannico ben presto si verificarono situazioni di emergenza. Al nord, i pitti della Scozia diedero inizio a una serie di incursioni sempre più audaci attraverso il Vallo di Adriano, e nel 410 i governanti romani della Britannia chiesero rinforzi all’imperatore Onorio. Questi, però, aveva ben altri problemi da affrontare, perché quello stesso anno Roma venne saccheggiata dai visigoti di Alarico. Non solo quindi nessun rinforzo poté essere inviato in Britannia, ma anzi da questa vennero richiamate le legioni che ancora vi si trovavano. In seguito al crollo dell’Impero d’Occidente le forze romane vennero completamente ritirate dall’isola.

La Britannia aveva fatto parte dell’Impero Romano per tre secoli e mezzo, e la struttura governativa a lungo aveva avuto a fondamento quella militare, situazione che aveva assicurato la stabilità per un periodo più esteso di ogni altro di cui si avesse localmente memoria. Ora, improvvisamente, questo supporto viene a mancare e il paese rischia di piombare in preda all’anarchia. Ogni britanno nato libero era stato cittadino romano, e ben pochi erano quelli che vedevano con favore la partenza delle legioni.

Le testimonianze attendibili di questo periodo della storia britannica sono scarse e disperse, ma un quadro complessivo lo si può ricavare da san Germano, vescovo di Auxerre, che nel 429 si recò in Britannia quale inviato della Chiesa cattolica. Stando al suo biografo Constantius, sebbene nel nord del paese si verificassero gravi disordini, in numerose località britanniche sussisteva un modo di vivere di tipo romano. Le cose, però, andarono rapidamente peggiorando in seguito al crollo definitivo dell’Impero d’Occidente.

La sua traballante struttura si frantumò completamente nel 476 quando Odoacre, un ufficiale sciro (od erulo), depose l’imperatore Romolo Augustolo e divenne re d’Italia. Volatilizzate per sempre le speranze di una rinascita imperiale, verso la fine del V secolo a quanto sembra crollò l’amministrazione centrale in Britannia. In molte regioni del paese si tornò a forme di aggregazione tribale e ben presto si imposero locali signori della guerra. Le contese territoriali erano all’ordine del giorno, e l’isola precipitò inesorabilmente nell’anarchia.

Nell’età oscura che seguì, ben poche cronache vennero redatte, e praticamente nessuna di esse ci è pervenuta. Il motivo principale della scarsissima conoscenza che abbiamo di questo periodo della storia britannica va ricercato nel fatto che il distacco da Roma isolò la Britannia dall’ambito degli scrittori mediterranei che costituiscono la principale fonte delle nostre informazioni sull’epoca. Ne consegue che gli eventi verificatesi in Britannia durante il V secolo sono tutt’altro che documentati; comunque, sembra certo che la parte settentrionale del paese subì ripetute incursioni da parte dei pitti, mentre la parte occidentale veniva invasa dagli irlandesi. Tuttavia, per la maggioranza dei britanni il problema più immediato era costituito dalle lotte per la supremazia regionale tra i capi indigeni, e fu in un paese frammentato che gli anglosassoni diedero inizio alle loro invasioni.

Abitanti costieri dell’attuale Danimarca e della Germania settentrionale cominciarono ad attraversare la Manica per stabilirsi nella Britannia orientale. Molti capi britannici, anziché tentare di respingere quegli indesiderati migranti anglosassoni, presero ad assumerli al proprio servizio quali mercenari, ricompensandoli oltretutto con terre in cui potevano insediarsi. Verso la metà del V secolo, tuttavia, gli anglosassoni stavano arrivando ormai in numero tale da provocare disordini e scontri, e quella che era iniziata come migrazione ben presto si trasformò in invasione. Per qualche decennio, le forze britanniche furono progressivamente sospinte, verso ovest, finché attorno al 490 diedero il via a una serie di controffensive coronate da successo.

Chiunque fosse a guidare i britanni nell’ultimo decennio del V secolo, era senza dubbio un formidabile condottiero; che i britanni fossero più forti e più uniti in questo periodo di quanto lo fossero stati prima è comprovato non soltanto da Gilda e dal Venerabile Beda, ma anche dai ritrovamenti archeologici. Per esempio, nel Lincolnshire e nell’East Anglia vennero erette enormi fortificazioni a terrapieno; il tracciato dei fossati difensivi nella parte orientale dimostra chiaramente che i valli avevano lo scopo di respingere attacchi da est, vale a dire dalla zona occupata dagli anglosassoni. Lungo la valle del Tamigi questi eressero terrapieni ad andamento lineare aventi lo scopo di segnare una stabile frontiera, una difesa contro i britanni che ormai senza dubbio avevano cessato di essere la moltitudine disordinata di pochi anni prima, anzi rappresentavano ormai una minaccia effettiva per i sassoni.

Le massicce fortificazioni britanniche comprovano l’esistenza di ampie riserve di manodopera, e i terrapieni sassoni attestano che i britanni disponevano di un forte esercito; entrambi questi fattori inducono a supporre una nazione unita e, cosa più importante ancora, un capo forte e deciso. Era questi il guerriero Artù citato da Nennius?

Uno dei principali motivi di dubbio circa l’esistenza di Artù consiste nel non aver ritrovato nessuna testimonianza scritta coeva del V secolo in cui si trovi il suo nome. D’altro canto, sono giunte fino a noi punte o poche testimonianze storiche relative a qualsiasi capo britannico del tardo V secolo, e ciò perché all’epoca il paese era frammentato in fazioni in guerra tra loro, e legge, ordine e amministrazione civile erano quasi inesistenti. Ne consegue che, se un Artù ci fu davvero, è molto improbabile che si possa trovarne qualche traccia in resoconti coevi.

A parte un paio di stringate allusioni in poemi bellici di quel periodo oscuro, il più antico accenno ad Artù a noi pervenuto è, lo ripetiamo, quello contenuto nella Historia Brittonum compilata da Nennius verso l’830. Quantunque lo scritto di Nennius non possa essere ritenuto prova sufficiente dell’esistenza di Artù, dal momento che fu vergato tre secoli dopo la battaglia di Badon, a dire dell’autore da lui combattuta, in esso non si trova nulla che induca a vedere in Artù un’invenzione. Introducendo un elenco delle battaglie sostenute da Artù, Nennius afferma:

<In quel periodo i sassoni si accrebbero in moltitudine e si rafforzarono in Britannia. Alla morte di Hengist, suo figlio Octha passò dalla parte settentrionale della Britannia nel regno dei Kentishmen [gli abitanti del Kent], e da lui discesero i re dei Kentishmen. Poi Re Artù combatté contro di loro in quei giorni insieme ai re dei britanni, ma egli stesso era la guida nelle battaglie.>

Tutto ciò che Nennius collega ad Artù sembra storicamente accettabile: entrambi i guerrieri sassoni da lui menzionati, Hengist e Octha, sono citati in fonti anglosassoni, ed entrambi vissero nella seconda metà del V secolo, vale a dire nel periodo in cui Nennius colloca Artù.

A parte gli scritti pervenuti fino a noi di qualche monaco, relativi per lo più a questioni ecclesiastiche, le uniche testimonianze di carattere militare riguardanti la seconda metà del V e la prima metà del VI secolo si ritrovano in opere compilate dagli anglosassoni. La più importante di esse è la Cronaca anglosassone, della quale sussistono diverse copie. Sebbene sembri basarsi su precedenti documenti monastici dei sassoni occidentali, essa su compilata solo durante il regno di Alfredo il Grande, vale a dire tra l’871 e l’899, a quanto pare sotto la personale supervisione di Alfredo stesso.

Il fatto che non vi si trovi alcun accenno ad Artù a lungo ha proiettato un’ombra di dubbio sulla sua storicità. D’altro canto, essendo l’opera con ogni probabilità un tentativo di Alfredo di celebrare le vittoriose imprese dei suoi antenati sassoni, è ragionevole supporre che egli non desiderasse affatto attirare l’attenzione sulle realizzazioni dei suoi avversari britanni. Infatti la Cronaca non menziona in pratica il nome di nessun capo britannico, e tanto meno di quelli che ebbero successo, uno dei quali, stando a Nennius, era appunto Artù. Ne consegue che la mancata citazione di Artù nella Cronaca non può essere usata quale argomentazione conclusiva contro la sua esistenza storica.

Anzi, convalidando Nennius, la Cronaca parla del re sassone Hengist. Da essa apprendiamo che le incursioni sassoni in Britannia ebbero inizio verso il 455, cominciando nel Kent, e che vennero guidate soprattutto dallo stesso Hengist fino al 480 circa. Ciò corrisponde esattamente al resoconto di Nennius, dove questi riferisce che Hengist fu il capo dei Kentishmen poco prima che Artù cominciasse la lotta contro i sassoni. Per la precisione, Nennius riporta che Artù combatté contro i sassoni una volta morto Hengist. La Cronaca afferma che egli morì nel 488, e anche questo corrisponderebbe alle campagne di Artù, se egli combatté la battaglia di Badon nel 493.

Sempre stando alla Cronaca, all’epoca del decesso di Hengist gran parte della Britannia meridionale e orientale era in mani anglosassoni, affermazione che coincide con l’evidenza archeologica, dalla quale risulta che fortificazioni di frontiera erano state occupate dai sassoni che si erano sospinti a occidente fino alla città di Bath. Sembra anche che fu appunto a Bath che si combatté la battaglia di Badon. Il nome moderno della città deriva dalle sue famose terme romane, cioè dai «bagni» che vi si trovavano. Ai sassoni era nota con il nome di Badanceaster, che a sua volta può essere derivato del termine originario britannico baddon, appunto «bagno», tuttora vivo nel moderno gallese.

Riscontri archeologici mostrano che alla fine del V secolo i sassoni per qualche decennio dovettero ritirarsi, cosa che ancora una volta coincide con la documentazione di una grande vittoria britannica all’epoca della battaglia di Badon. Il fatto che nella Cronaca non si trovi nessun accenno alla battaglia stessa ancora una volta dimostra che i suoi compilatori decisero di sottacere i successi britannici di quei tempi.

Siccome Nennius afferma che Octha era succeduto a Hengist all’epoca in cui Artù conduceva le sue azioni, possiamo supporre che questi combatté appunto contro Octha. Di nuovo, questi è una vera figura storica. Un manoscritto sassone del IX secolo, noto come il Cotton Vespasian, oggi conservato alla British Library, contiene un elenco dei re e dei vescovi dell’alto medioevo, tra cui Octha, di cui si dice che succedette a suo padre Hengist. Dal momento che la datazione di Nennius è coerente con la Cronaca, e i due altri guerrieri da lui nominati in una con Artù risultano essere storicamente autentici, si direbbe che non ci siano ragioni concrete per dubitare del suo accenno ad Artù come il più importante capo britannico nell’ultimo decennio del V secolo. […]

La Britannia nel V secolo era […] ben lontana dall’essere una nazione, suddivisa com’era in regni minori. Dovettero passare secoli prima che l’Inghilterra e il Galles divenissero paesi degni di tal nome. L’Inghilterra venne in essere allorché gli anglosassoni si fusero in un’unica nazione, mentre i britanni indigeni, vale a dire i celti che un tempo dominavano tutta l’Inghilterra e il Galles, divennero noti come welsh, dalla parola sassone weala che significava «stranieri». Di conseguenza, fino alla metà del XII secolo le imprese di Artù, un britanno, sopravvissero soprattutto in racconti gallesi, prima di essere riprese e rielaborate da scrittori di Inghilterra, Francia e Germania nelle vicende romanzesche di un monarca feudale medievale.

E allora, chi era codesto Artù, apparentemente il capo dei britanni alla battaglia di Badon nel 493? […] Stando a Nennius, Artù era il «capo in battaglia» dei britanni, presumibilmente il personaggio più potente tra i britanni stessi. Di conseguenza, […] è d’obbligo stabilire da dove potesse provenire il più influente capo britannico dell’epoca. […]

Stando alla leggenda, Artù sarebbe nato nel castello di Tintagel in Cornovaglia, avrebbe regnato da Camelot a Winchester e sarebbe stato sepolto a Glastonbury nel Somerset. Tuttavia, i castelli di Tintagel e di Winchester furono costruiti sei secoli dopo il periodo in cui Artù sarebbe vissuto, mentre la scoperta della sua tomba nell’abbazia di Glastonbury nel 1190 è generalmente ritenuta una mistificazione medievale per attrarre pellegrini. Nella migliore delle ipotesi, siccome né della croce né delle ossa che i monaci sostenevano di aver trovato si ha più notizia, non esiste alcuna prova né dell’una né delle altre. […] Inoltre nulla comprova che un luogo chiamato Camelot sia mai esistito. Il primo dei romanzi arturiani medievali non ne fa alcuna menzione. Il primissimo impiego di Camelot quale denominazione della corte di Artù si ha in Lancelot ou Le Chevalier à la charrette (Lancillotto o il cavaliere della carretta) di Chrétien de Troyes, scritto verso il 1180, dove compare una sola volta e di sfuggita. Il nome fu adottato poi da quasi tutti gli autori. Siccome sembra che Chrétien abbia inventato Camelot nel XII secolo, di per sé il nome difficilmente può essere di aiuto nella ricerca del campo base di un guerriero vissuto sette secoli prima. […] Tanto più che tutti i romanzieri descrivono particolareggiatamente la splendida città e il suo impareggiabile castello, ma non ne specificano mai il sito.

Se l’Artù storico era davvero il più potente capo, ne consegue che la sua residenza dovesse essere la roccaforte più importante e possente. E allora, qual era la principale città britannica ai tempi di Badon? Stando alla prospezione archeologica, si direbbe che fosse la città romana di Viroconium, […] nelle Midlands.

Durante l’occupazione romana, la Britannia era stata divisa in distretti noti come civitates, ciascuno basato su preesistenti aree tribali e governato da una capitale amministrativa. Le quattro città principali erano Londra, Lincoln, York e Viroconium. Da Gilda, dal Venerabile Beda e dalla Cronaca sappiamo che, mezzo secolo dopo il ritiro dei romani nel 410, Londra e Lincoln vennero occupate dagli anglosassoni, mentre York veniva saccheggiata dai pitti. Sebbene altri centri maggiori, come Cirencester ed Exeter, fossero relativamente al sicuro da attacchi, si potrebbe quindi supporre che sia stata Viroconium ad assumere la massima importanza.

La posizione di Viroconium sulla mappa

A differenza di Londra, Lincoln e York, a tutt’oggi città fiorenti, di Viroconium attualmente non restano che le mura in rovina, sorgenti in una tranquilla zona agricola appena fuori dal villaggio di Wroxeter nello Shropshire, a circa otto chilometri a sudest di Shrewsbury. I resti visibili di Viroconium sono quelli di un grande complesso di terme costruito verso il 150; le antiche strutture in mattoni, che ancora dominano il sito, noto localmente con il nome «Old Work», erano un tempo il muro meridionale di un vasto palazzo a navate (denominato «la basilica») adibito a palestra per le terme stesse. Dal momento che si levano in aperta campagna, le rovine di Viroconium hanno offerto un’eccellente opportunità di scavi, e nell’ultimo secolo molte ricerche archeologiche vi sono state infatti condotte. Oggi, il sito è aperto al pubblico e vi si trova anche un piccolo museo dove è esposta una parte dei reperti rinvenuti, sebbene la maggior parte di essi sia ospitata nel Rowley’s House Museum a Shrewsbury.

Verso la fine degli anni Sessanta, sul sito è stato intrapreso un nuovo scavo che è proseguito per oltre un decennio, e ha restituito una cospicua documentazione del fatto che la città continuò a essere un capoluogo amministrativo altamente urbanizzato anche dopo che altre città romane erano state del tutto abbandonate. Inoltre, sembra che verso il 420, mentre altrove i centri romani cadevano in rovina, Viroconium sia stata addirittura ricostruita.

Dalle buche scavate per conficcare pali e da altre significative indicazioni delle fondamenta e delle costruzioni della città, si deduce che gli edifici del V secolo erano stati costruiti in legno, non già in mattoni intonacati, a differenza di quelli della precedente città romana. Erano complesse costruzioni di vaste dimensioni, di struttura classica, con colonnati e facciate rispondenti a un ordine preciso, e molte si articolavano su almeno due piani. Non soltanto erano stati eretti nuovi edifici e tracciate ex novo strade, ma anche le infrastrutture di Viroconium avevano subito un ripristino. Nuovi sistemi fognario e di fornitura di acqua sono stati installati ricorrendo a un complesso insieme di acquedotti, e lunghi tratti delle strade lastricate romane erano stati dotati di una nuova copertura. Il centro nevralgico della nuova Viroconium era costituito da un grande edificio munito di ali eretto sul sito della «basilica»; accompagnata da un insieme di edifici adiacenti e di fabbricati annessi, questa struttura in stile classico sembra essere stata il palazzo di una serie di importanti capi postromani. A quanto afferma il direttore degli scavi, Phillip Barker, potrebbe essere stato uno degli ultimi edifici classici sorti in Britannia.

 Viroconium è di gran lunga lo stanziamento dell’alto medioevo più complesso finora riportato alla luce. Sembra essere stata non soltanto la principale città della Britannia del V secolo, ma anche essere rimasta tale ancora per molto tempo dopo la battaglia di Badon. Di conseguenza, il suo imponente palazzo era probabilmente la residenza del più importante capo dei britanni. In altre parole, posto che Artù sia realmente esistito, la città di Viroconium è la più credibile aspirante alla qualifica di sede del suo potere, la Camelot storica.

<Perché hai sguazzato nel sudiciume della tua trascorsa perfidia fin dalla tua gioventù, tu orso, guida di molti e auriga del carro della roccaforte dell’orso?[4]>

Questo passo, dovuto alla penna di un oscuro monaco e cronista britannico vissuto attorno alla metà del VI secolo, può contenere una chiave di importanza fondamentale per scoprire la vera identità del misterioso Re Artù. Tale la conclusione a cui siamo giunti tentando di individuare il più probabile capo britannico alla battaglia di Badon, vale a dire il più potente signore della guerra dell’isola, e di conseguenza il più promettente candidato alla qualifica di Artù storico.

Nel VI secolo, la Britannia era frazionata in una serie di piccoli regni, e verso il 545 il monaco Gilda riporta i nomi dei sovrani dei più importanti di essi. Ciò a distanza di solo una generazione da Badon, ed è dunque tutt’altro che improbabile che sia stato il più influente di quei governanti a riportare la vittoria britannica nella battaglia.

Gilda racconta che il re più potente era Maglocunus, ricordato sia da Nennius sia dai Welsh Annals del X secolo, oggi alla British Library, quale signore del Regno di Gwynedd nel Galles settentrionale. Sempre stando a Gilda, Maglocunus aveva conquistato il potere sconfiggendo in battaglia il proprio zio. Nel suo De excidio et conquestu Britanniae, Gilda rimprovera Maglocunus con queste parole:

<Nei primi anni della tua gioventù, tu schiacciasti il re tuo zio e i suoi valorosi soldati con fuoco, spada e lancia.>

Dal momento che Maglocunus era ormai di mezza età quando Gilda scriveva ed è definito un giovane all’epoca in cui aveva rovesciato il proprio zio, ne consegue che l’evento deve aver avuto luogo agli inizi del VI secolo. Ciò significa che lo zio di Maglocunus quasi certamente apparteneva alla stessa generazione dei britanni che avevano combattuto a Badon. Siccome Maglocunus divenne il re più potente dopo averlo sconfitto, lo zio può essere stato effettivamente il comandante britannico durante la battaglia. Lo zio di Maglocunus era dunque l’Artù storico? Purtroppo, Gilda non ne fa il nome, e tutto ciò che possiamo dire è che, a quanto sembra, era stato un valente capo che Gilda ammirava.

Degno di nota il fatto che codesto zio abbia qualcosa in comune con l’Artù leggendario. Una storia affine di lotta intestina si ritrova nei romanzi medievali, nei quali Artù muore quando suo nipote tenta di impadronirsi del trono. Anche se nei romanzi il nome del nipote di Artù è Mordred, la leggenda originaria si era forse fondata sul Maglocunus storico? […]

Un altro potente capo nominato da Gilda era Cuneglasus, signore di un regno separato, ma non nominato, nello stesso periodo in cui Maglocunus regnava su Gwynedd. Cuneglasus è ricordato in una genealogia contenuta nei Welsh Annals, dove viene indicato quale cugino di Maglocunus. Il padre di Cuneglasus può pertanto essere stato lo zio di Maglocunus, e il fatto che Cuneglasus fosse un possente e autonomo sovrano rende più che mai probabile che sia stato suo padre a perdere il trono usurpato da Maglocunus. In altre parole, il padre di Cuneglasus era il sovrano di un regno che, dopo la sua morte, fu diviso in due reami separati: suo figlio gli succedette direttamente sul trono di uno, mentre suo nipote si impadroniva dell’altro.

Riferendoci quindi a quanto scritto da Gilda, che costituisce la fonte storica coeva più completa a tutt’oggi, il padre di Cuneglasus è pertanto il più probabile candidato alla figura del più potente sovrano britannico durante la presunta era arturiana. Ma chi era in realtà? Nei Welsh Annals, il padre di Cuneglasus è indicato con il nome di Owain Ddantgwyn. Ben pochi dubbi possono sussistere circa il fatto che questo fosse davvero il suo nome, dal momento che anche quattro diverse genealogie dell’alto medioevo lo registrano come tale. Di conseguenza, a prima vista si direbbe che il più potente capo all’epoca di Badon in fin dei conti non avesse nome Artù. D’altro canto, se esaminiamo il nome Artù scopriamo che può darsi non fosse affatto un nome di persona bensì un nome di battaglia, un titolo.

Vari storici hanno teorizzato che «Artù» fosse un derivato britannico del nome romano Artorius: ipotesi che ha avuto larga diffusione in seguito alla pubblicazione, avvenuta nel 1973, del poema Artorius in dodici parti di John Heath-Stubbs, al quale ha fatto poco dopo seguito Artorius Rex di John Gloag, dato alle stampe nel 1977. È stato fatto rilevare che un soldato romano a nome Lucius Artorius Castus prestò servizio quale ufficiale in Britannia verso la fine del II secolo, e che un altro a nome Artorius Justus si trovava sull’isola nel III secolo, ma non ne consegue per forza di cose che Artorius fosse la versione originale del nome Artù. Sembra infatti più probabile che il nome Artù sia derivato dalla parola arth, un antico vocabolo britannico tuttora presente nel gallese moderno, che significa «orso».

Da numerose fonti risulta che i guerrieri britannici dell’alto medioevo facessero uso di nomi di battaglia animali, come del resto i pellirosse dell’America settentrionale, che venivano designati come Cavallo Pazzo, Aquila Bianca e Toro Seduto. Da poemi guerreschi altomedievali come il Gododdin, attribuito al bardo Aneirin del VII secolo, apprendiamo che a molti signori della guerra dell’alto medioevo veniva associato il nome di un animale, che in qualche modo ne personificava le qualità.

Nel Gododdin si narra la sorte di un gruppo di guerrieri del regno omonimo nella Scozia meridionale che verso il 600 si accinsero ad affrontare gli anglosassoni. Due copie del poema risalenti alla metà del XIII secolo sono conservate nella biblioteca pubblica di Cardiff. Tuttavia, stando allo stile della composizione e alla grafia dei nomi, si ritiene che il Gododdin sia stato composto nella prima metà del VII secolo. In esso, i guerrieri sono indicati con nomi di battaglia come Cane e Lupo, e uno è appunto chiamato Orso. Sebbene codesto particolare guerriero sia vissuto in epoca troppo tarda per poter essere stato l’Artù storico, il Gododdin comprova con ogni evidenza che «Orso» era usato quale nome di battaglia dai britanni durante l’alto medioevo.

Anche Gilda si serve dei nomi di battaglia dei capi da lui citati. Così, per esempio, chiama Maglocunus il Drago, e significativamente Cuneglasus l’Orso. A quanto si sa di Maglocunus, sembrerebbe che questi nomi di battaglia fossero ereditari, poiché è noto che i suoi discendenti continuarono a insignirsi del suo titolo di Drago. I discendenti in questione, infatti, finirono per conquistare gran parte del Galles e il loro emblema è tuttora presente sullo stendardo nazionale gallese.

È quindi possibile che anche Cuneglasus avesse similmente ereditato il nome di battaglia di suo padre. Infatti Gilda, nella citazione pocanzi riprodotta, suggerisce appunto questo, sottintendendo che Cuneglasus, l’Orso, è ora a comando di una fortezza già nota come «roccaforte dell’Orso». In altre parole, aveva ereditato una roccaforte da un precedente Orso, presumibilmente suo padre Owain Ddantgwyn.

Sicché Owain, il principale candidato al ruolo di comandante britannico nella battaglia di Badon, può davvero essere stato chiamato Arth, nome che non è escluso sia stato alterato e trasformato nel più lirico Artù all’epoca in cui Nennius compilava la sua opera tra secoli più tardi. Infatti, leggende superstiti suggeriscono proprio questo. Nel folclore della Cornovaglia, la costellazione dell’Orsa Maggiore, il Grande Orso, è chiamata Arthur’s Wain, ovvero «Carro dell’Orso». Inoltre, l’iniziatore dei romanzi arturiani nel XII secolo, Goffredo di Monmouth, afferma che Merlino aveva profetizzato l’avvento di Artù dopo aver avuto la visione di un orso tra le stelle. Entrambi questi riferimenti leggendari, che in apparenza accoppiano Artù con la costellazione dell’Orsa Maggiore, comprovano chiaramente che egli era associato a un orso assai prima che i romanzi acquistassero popolarità da un capo all’altro d’Europa.

Dunque, Owain Ddantgwyn ci sembra essere il candidato più accettabile per il ruolo dell’Artù storico. I documenti storici e archeologici hanno già dimostrato che la città di Viroconium era la più probabile sede del guerriero sul quale si basarono le leggende di Artù. Nella seconda metà del V secolo, come si è detto, la Britannia era frammentata in piccoli regni, e Viroconium divenne la capitale di quello che geograficamente le si estendeva attorno, il reame di Powys. Oggi il nome è passato ad indicare una contea gallese, ma in origine Powys comprendeva gran parte delle Midlands occidentali e del Galles centrale. Ciò che a questo dobbiamo verificare è se Owain Ddantgwyn fosse stato effettivamente re di Powys.[5] […]

Sappiamo che Owain era sovrano di un regno che comprendeva Gwynedd nel Galles settentrionale, e che Maglocunus dopo la sua morte aveva assunto il dominio di quella zona. Ma il regno di Owain comprendeva anche quello che in seguito sarebbe diventato il reame separato di Powys? Da Gilda apprendiamo che il figlio di Owain, Cuneglasus, governava un regno che alla metà del VI secolo era stato separato da Gwynedd: purtroppo, Gilda non fornisce il nome del regno di Cuneglasus, limitandosi a indicare che includeva ciò che in suo passo designa come la «roccaforte dell’Orso». Questa misteriosa fortezza era una cittadella del Powys? O anzi, la stessa Viroconium era la «roccaforte dell’Orso»?

All’epoca in cui Gilda scriveva, i cinque più potenti regni britannici erano Gwynedd nel Galles settentrionale, Powys nell’Inghilterra centrale, Dumnonia in Devon e Cornovaglia, Gwent nel Galles sudorientale e Dyfed nel Galles sudoccidentale. Siccome Maglocunus regnava su Gwynedd, e Gilda afferma che un Costantino regnava su Dumnonia e un Vortipor su Dyfed, è assai probabile che Cuneglass esercitasse il proprio dominio su Powys o Gwent. E poiché entrambi codesti regni a quanto sembra avevano comuni confini con Gwynedd, sia l’uno che l’altro possono essere stati la seconda metà geografica del regno su cui aveva esercitato il proprio dominio Owain Ddantgwyn.

La famiglia di Cuneglasus, tuttavia, può essere senz’altro collegata al regno di Powys a causa del prefisso Cun presente nei suoi nomi. Nell’antica favella britannica, il britonico (brythonic), come pure nel gallese moderno, la sillaba Cun è pronunciata Cyn. Infatti, in più di una genealogia gallese Cuneglasus è indicato come Cynglasus o Cynglas. Un antico poema guerriero gallese, The Song of Llywarch the Old (Il Canto di Llywarch il Vecchio, oggi alla Bodleian Library), che si crede composto verso l’850, chiama Cynddylan il sovrano di Powys alla metà del XII secolo, aggiungendo che i suoi predecessori immediati erano Cyndrwyn e Cynan. Anche i Welsh Annals collegano la famiglia con il Powys, laddove riferiscono che «Cynan re di Powys morì a Roma nell’854». Lo stesso poema afferma che i re di Powys erano gli «eredi del grande Artù». Siccome non è stato scoperto nessun documento del genere in base al quale collocare nel Gwent la stirpe di Cuneglasus, sembrerebbe quasi certo che costui sia stato un re di Powys.

Sotto il profilo archeologico, la recente opera di K.R. Dark, direttore del Journal of Theoretical Archaeology, pubblicata nel 1994 e intitolata Civitas to Kingdom, istituisce anch’essa un nesso tra Cuneglasus e Powys, ipotizzando non soltanto che il primo fosse un capo powysiano, ma anche che Viroconium fosse «il centro politico del regno powysiano nel V secolo».

Sembra dunque abbastanza attendibile che Cuneglasus fosse stato il sovrano del regno di Powys, ma si deve supporre che suo padre Owain Ddantgwyn avesse in precedenza regnato sulla stessa regione? Anche in questo caso, la documentazione archeologica appare persuasiva. Un re il cui nome recava il prefisso Cun fu sepolto a Viroconium verso il 480, a quanto sembra prima del regno di Owain Ddantgwyn. Nel corso degli scavi condotti a Viroconium nel 1967, una lapide tombale databile al 480 circa è stata scoperta appena all’esterno dei bastioni cittadini, ed essa reca l’iscrizione Cunorix macus Maquicoline, vale a dire: «Re Cuno figlio di Maquicoline».[6]

Sembra dunque più probabile che Owain Ddantgwyn, il più attendibile candidato al ruolo di Artù, governasse il Powys dalla città di Viroconium, la più probabile residenza storica del capo britannico al tempo in cui, secondo Nennius, sarebbe vissuto Artù. In altre parole, stando ai dati archeologici e storici, Owain regnò nel luogo giusto nel periodo giusto per essere stato l’Artù indicato da Nennius.


[1] D. Marin, Appunti di Storia Proibita, SoleBlu 2022, App. #1.

[2] Sulla commistione tra Veneti e Celti, cfr. D. Marin, Cronache del Dominio, sec. 2.6 “Veneti”, p. 64.

[3] L’occupazione romana della Britannia era iniziata intorno al 43 d.C. e si sarebbe conclusa nel 410.

[4] Gilda, De excidio et conquestu Britanniae (La rovina e la conquista della Britannia), 545 ca.

[5] Gli Annali riportano che Owain Ddantgwyn sconfisse in battaglia il precedente re del Powys, Vortigern, sicché è verosimile che lo stesso ne abbia inoltre guadagnato la corona.

[6] Potrebbe trattarsi di Cunedda, padre di Einion Yrth (Uther Pendragon) che fu padre di Owain Ddantgwyn, ovvero il nonno del presunto Artù. In precedenza Cunedda aveva regnato sui Veneti dell’Angus (Scozia) stabilendo rapporti amicali con i Pitti, tanto che le cronache confondono talvolta i due popoli. Aveva tuttavia avuto la peggio negli scontri che avevano seguito l’invasione dei Milesi (Scoti) dall’Irlanda, ed era stato costretto a spostare la propria gente nel Gwynedd. I Veneti erano giunti nell’Angus dallo Jutland, dopo che gli Elleni avevano conquistato la regione nel 2193 a.C. e ne avevano tradotto il nome in Etolia. Da qui, oltre che nell’Angus, la “diaspora” aveva condotto i Veneti in Armorica (dove li avrebbe combattuti Giulio Cesare), nel Donegal irlandese, nella Curlandia baltica e in Pomerania (e da qui nel Nord Italia dopo il 1200 a.C.). Cfr. D. Marin, Platone nel Baltico, SoleBlu 2022. Cunedda aveva inoltre sangue ebraico, poiché la sua famiglia originava dall’unione di Bran Fendigaid “il benedetto” (già principe dell’Angus) con Anna ben Cleopa, che secondo i Vangeli sarebbe stata cugina di Gesù il Nazareno.

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La Famiglia Marin

Osserviamo il cartiglio. L’Unicorno è la cavalcatura della regina amazzone Talestri; la “Stella degli Argeadi” rappresenta la famiglia di Alessandro il Grande, discendente dal Re di Argo Temeno; il Leone è l’effige dei Veneti e di Venezia, laddove il (genovese) cav. Lucio Bortolamio si installò nel 1227. Quest’ultimo prese casa nel quartiere “Marin” della città lagunare, così chiamata essendo zona di spaccio dei mercanti di San Marino. Dacché i suoi figli ebbero per cognome la stessa etichetta.

Si narra che allorché Alessandro si trovava in Asia Minore, egli ebbe la visita della nobile Talestri, Regina delle Amazzoni che dominava i territori intorno al fiume Termodonte, tra la Catena del Caucaso e il fiume Fasi. La donna trascorse 13 notti nella sua tenda, e nove mesi più tardi diede alla luce una bambina: Mirtale. Secoli avanti, una seconda Mirtale, discendente della prima, sarebbe venuta a Venezia accompagnata dal padre, un mercante della Crimea. Qui avrebbe conosciuto il cavaliere Lucio Bortolamio, che proveniente da Genova si era appena stabilito nel quartiere “Marin”. Era il 1.227. Dopo una breve frequentazione, Bortolamio e Mirtale si sarebbero incontrati sul talamo nuziale ed avrebbero generarato figli e figlie, a cui l’anagrafe della Serenissima avrebbe assegnato per cognome il nome stesso del quartiere: Marin, appunto. Da allora molti Marin diventarono membri del senato veneziano; alcuni furono addirittura ambasciatori presso il sacro imperatore. Ciononostante, la condizione economica dei nostri avi più recenti illustra chiaramente la decadenza del casato.

Nel Romanzo di Alessandro, il cuoco del re macedone – Andrea – si imbatte per caso in una sorgente in cui si ferma per lavare il pesce. Il primo però a venire bagnato dall’acqua, magicamente riprende vita, così che Andrea si rende conto di aver trovato la “fonte dell’eterna giovinezza”. Il cuoco non rivelerà mai la sua scoperta, eccezion fatta per la piccola Mirtale (qui chiamata Kalé), che accompagnata alla fonte ne beve in abbondanza divenendo immortale. Ora, se Mirtale divenne immortale, dovremmo intendere che la seconda Mirtale, sposa di Lucio Bortolamio, fosse in realtà la stessa figlia di Alessandro? Mi rendo conto che è soltanto un racconto, ma a volte sognare è necessario.

Nota a margine: nello stesso Romanzo, l’amazzone Talestri viene chiamata Unna.

Alessandro, Talestri (Unna) e la piccola Mirtale (Kalé)
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C0v1d e Serotonina

C0v1d e Serotonina

Dopo 26 anni di Disturbo Ossessivo Compulsivo, sono in grado di misurare i miei livelli di Serotonina meglio di quanto potrei misurare le porzioni a tavola. Ho aspettato di prendere il C0V1D tre volte prima di espormi, per poter parlare con sicurezza. Ora lo considero un dato di fatto: il C0V1D riduce sensibilmente i livelli di serotonina.

Un livello di serotonina ottimale favorisce: fiducia nel mondo e nel significato dell’esistenza, leggerezza, slanci intuitivi, coinvolgimento, esperienze di flusso.

Un livello di serotonina sottosoglia produce: sfiducia, ossessività, sentirsi in trappola, apatia agli stimoli, isolamento, ruminazione mentale, ripetizione di schemi disfunzionali.

Come potete notare anche da soli, una riduzione della serotonina va a rinforzare proprio quei fenomeni psichici che la società produce volontariamente da anni attraverso i media, la scuola e una gestione dell’economia che si riflette nei ritmi ossessivi e negli orari eccessivi delle attività lavorative. Poiché tali fenomeni erano già noti come conseguenza del V1R[]S DENGUE, non escluderei che nel C0V1D ci siano appunto frammenti di DENGUE.

Il giornalista Paolo Barnard, ne L’Origine del V1R[]S, Chiarelettere 2021, ha portato le prove (prove, non indizi) della produzione del C0V1D X1X in laboratorio (a []4N) a fini di studio. Barnard ha ribadito di non credere ad una diffusione volontaria, ma di sostenere l’ipotesi della diffusione accidentale. Ovviamente qui ciascuno può dire la propria. A me personalmente pare strano che qualcosa si diffonda per caso e che sempre per caso produca effetti in linea con i programmi sociali delle élite.

Concludo supponendo che un “buon” piano prevederebbe la subitanea distribuzione di un V4CC1N0, che da un lato abbia qualche blando effetto immunitario, dall’altro introduca ulteriori agenti inibitori della serotonina. Curiosamente, un’inibizione della serotonina avrebbe manifestazioni più importanti nei soggetti più giovani, con un picco nei soggetti adolescenti, abbattendo un’importante barriera naturale tra i fattori di stress ed il loro impatto sul sistema circolatorio, cuore compreso. In questo modo, se non si studiano gli effetti sulla serotonina, il V4CC1N0 apparirebbe appunto come tale, così da poterlo affidare anche a ricercatori in buona fede senza temere che vi scoprano nulla di compromettente.


Aggiunge Niko Verghil da facebook:

«L’oggetto specifico delle manifestazioni patologiche gravi del C0V1D consiste nella tempesta citochimica su base autoimmune, un fenomeno a penetrazione profonda tanto da determinare problemi nella coagulazione. Gli aspetti infiammatori e autoimmuni sono strettamente collegati con la produzione di neurotrasmettitori.»

«In aggiunta, la tempesta di citochine ha un effetto opposto su altre tipologie di neurotrasmettitori, ovvero provoca un impoverimento di serotonina e dopamina, molecole fondamentali per il nostro benessere psicofisico. Queste sostanze sono, infatti, coinvolte in molti aspetti della motivazione, del piacere, dell’umore e delle relazioni sociali.»


Da successivi scambi è emerso come il Covid-19 inibisca contemporaneamente la trasmissione di serotonina, dopamina e melatonina, abbattendo la dimensione spirituale della psiche e inducendo uno stato apatia e depressione.

Tali circostanze implicano la possibilità che il Virus costruito nel laboratorio di Wuhan sia una sorta di ibrido tra la comune influenza e la Febbre Dengue, che appunto manifesta questi effetti. La Dengue è anche causa di miocarditi, sicché anche quest’ultime potrebbero essere state trasferite al Covid… e al v4cc1n0 contro il Covid. Esigerei chiarezza sugli esperimenti di Wuhan, in particolare appunto sull’ibridazione suddetta.

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L’Esperimento Philadelphia

L’Esperimento Philadelphia

Al principio degli anni ’30 del XX secolo, il gotha della fisica mondiale venne riunito all’Università di Princeton, nel New Jersey, per mettere in pratica la teoria di Einstein sul Campo Unificato e realizzare quello che potremmo chiamare un teletrasporto su larga scala.

Un decennio più tardi l’esperimento fu completato con successo: il 12 agosto 1943 il cacciatorpediniere USS Eldridge DE 173 scomparve dal porto di Philadelphia per apparire in quello di Norfolk, 350 km più a sud, tornando poi istantaneamente a Philadelphia 15 minuti più tardi.


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Meccanica Quantistica e Bugie Esoteriche

Meccanica Quantistica e Bugie Esoteriche

La filosofia, la psicologia e l’esoterismo hanno sempre avuto un ruolo determinante nell’ispirare le nuove concezioni della fisica. Recentemente un grosso merito va riconosciuto al modello psicologico della “Gestalt” che sta trovando applicazione nella “fisica dei sistemi complessi” e che può essere riassunto nell’idea – oramai verificata – che un sistema organizzato non può essere descritto semplicemente accostando le proprietà delle sue componenti, poiché in esso emergono proprietà assolutamente nuove (chiamate appunto “proprietà emergenti”). In termini filosofici: “il Tutto non è la semplice somma delle Parti”. Cade pertanto la convinzione che si possa conoscere l’Universo facendo scontrare violentemente tra di loro atomi, protoni od elettroni, poiché così facendo, rompendo il “sistema complesso”, tutte le proprietà emergenti scompaiono e non possono essere studiate.

Detto questo, va assolutamente condannata la tendenza ad utilizzare il nome di una teoria che non comprendiamo per giustificare delle concezioni fantasiose prive di alcun fondamento. Mi riferisco in particolare alla Meccanica Quantistica, una teoria complessa, che non può essere appresa su dei testi divulgativi e che richiede prima di tutto la padronanza di un linguaggio matematico specialistico. Alcuni concetti possono essere vagamente intuiti, merito anche delle chiare esposizioni di scienziati-scrittori come Brian Green o Mikio Kaku. Ho provato a farlo anch’io in Dalla Coscienza ai Buchi Neri. Ma intuire un concetto tramite simbolo o metafora, non ci autorizza a prendere la metafora alla lettera e ad applicarla oltre il contesto in cui è stata presentata. Laddove si afferma che il comportamento di una particella può essere meglio descritto da un “campo” o, impropriamente, da un’“onda”, non vuol dire che “tutto vibra”. Un’onda è un qualcosa che permea lo spazio e che assume ovunque valori diversi, variabili o costanti nel tempo; dove tali valori “sono alti” è maggiormente probabile che si realizzi qualcosa di vagamente somigliante ad uno scontro tra palline. La Meccanica Quantistica non descrive il Respiro del Brahman. Non vi è inoltre alcuna connessione tra frequenza dell’onda e densità della materia, non è vero che spirito e materia sono la stessa energia che vibra più intensamente nello spirito e più pacatamente nella materia. Un’alta frequenza corrisponde semplicemente ad un alto valore di energia (in senso strettamente fisico), che nel caso di una particella libera si riduce alla sola energia cinetica. In altre parole: la particella (emergente in corrispondenza dell’onda) si muove con una velocità elevata. Si tratta peraltro di una caratteristica relativa, in quanto la velocità di un oggetto dipende dal sistema di riferimento rispetto al quale viene misurata, e le scoperte di Einstein hanno dimostrato che non esiste un sistema di riferimento privilegiato. Altro discorso è usare il termine “frequenza” per il suo valore simbolico, intendendo che due entità di “frequenza” diversa si collocano a valori diversi di uno stesso parametro, ad esempio la posizione lungo una direzione non pienamente percepita, come una quarta dimensione spaziale.

Un’altra idea errata, e pericolosa, è che tutti siano in grado di curarsi con la mente e che pertanto si debbano rifiutare le cure mediche ordinarie. Ora, è piuttosto chiaro che gran parte delle patologie, anche gravi, abbiano un’origine psicologica. Ciò è stato verificato in particolar modo nello sviluppo dei tumori, in quanto lo stress sopprimerebbe gli anticorpi “killer”, ovvero quegli anticorpi che neutralizzano le cellule pretumorali, che più o meno numerose si sviluppano in tutti gli organismi. Se gli anticorpi “killer” sono assenti o sono deboli, le cellule pretumorali diventano cellule tumorali. Tuttavia, a meno che non si abbia una padronanza del proprio spirito ascrivibile a pochi (forse Budda, Gesù e altri quattro), una volta che la massa tumorale abbia raggiunto una certa grandezza, è impensabile contenerla con azioni prettamente energetiche. Non si cura il tumore con il Reiki, né con la Mindfulness. Certamente la Mindfulness serve ad eliminare la causa psicologica che ha innescato il tumore, che sicuramente ha iniziato ad agire mesi o anni prima della sua manifestazione organica, e sulla quale si deve comunque lavorare, per impedire che il tumore faccia di nuovo capolino una volta asportato chirurgicamente. Ma non riassorbirete il tumore meditando. E tuttavia meditate, assolutamente. Chi si limita ad asportare il tumore chirurgicamente, quasi sempre muore in conseguenza di un altro tumore, magari diverso, ma che in un certo senso è lo stesso tumore che ritorna, ricomparso in quanto la causa psicologica non è stata rimossa. Quindi bene la meditazione, bene il reiki, ma non si diventi ingenui. Se il karma vi conduce a rompervi una gamba, magari perché avevate il bisogno inconscio di fermarvi, avrete comunque bisogno di ingessarla.

Altra grande aberrazione è la guarigione passiva. Come la chirurgia, da sola, non vi salva dal tumore, che tornerà a meno che non rivediate consapevolmente il vostro stile di vita, allo stesso modo non vi sarà alcuna guarigione per mezzo della pura imposizione delle mani. L’uso delle mani nel Reiki serve a stimolare il corpo fisico ed i corpi energetici laddove essi trattengano la memoria di un trauma o impediscano la chiara analisi di una situazione. Il “tocco” trasferisce dall’inconscio al conscio, ma è il ricevente che deve poi elaborare il contenuto, dargli un significato ed integrarlo nella propria vita, possibilmente con l’aiuto del praticante. Anche l’esorcismo usa la suggestione dei simboli per distruggere il legame con un’eggregora distruttiva, ma se il credente non modifica i suoi pensieri, quello che i cristiani chiamano “demone” tornerà a comandare.

Chiudo con il concetto di “iniziazione”. L’iniziazione è semplicemente il superamento di un dolore che ci ha condotti sulla soglia della morte mediante il raggiungimento di una nuova consapevolezza. Lo “sciamano” è colui ha superato il proprio dolore, colui che è guarito e che adopera la propria esperienza per insegnare la guarigione agli altri. Badate bene, insegnare, non guarire. Lo sciamano, lo psicologo, il facilitatore Mindfulness o il master Reiki, deve fornire gli strumenti e insegnare al cliente o all’allievo come utilizzarli, ma quest’ultimo può salvarsi unicamente da solo. La responsabilità è sempre nostra. Rido quando leggo di chi intende il Reiki come un potere trasmesso da maestro ad allievo mediante un “tocco magico” che costa 2.000 euro e che, se da un lato è impegnativo (economicamente), dall’altro è estremamente facile, perché non richiede alcuno sforzo (mentale). La disciplina esoterica, la sensibilità all’aura e in generale l’empatia, si imparano con il dolore e il suo superamento mediante la lotta e la progressiva presa di coscienza. Non c’è nessun’altra via. Per quanti attestati riceviate. Che poi la società ci imponga gli attestati per operare “a norma” è un’altra questione. Ho dovuto prenderli anch’io, ma esercitare solo in forza di un attestato non è onesto.

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La Mente di Dio

La Mente di Dio

La Cosmologia ha stabilito di recente che l’energia totale dell’Universo ha valore nullo. (Cfr. Gian Francesco Giudice, Prima del Big Bang, Rizzoli 2023.) In altri termini, un contributo brobdingnagiano di energia positiva, sotto forma di particelle elementari, sarebbe compensato da un contributo gargantuesco di energia negativa sotto forma di tensione gravitazionale, immagazzinata nelle fibre stesse del tessuto spaziale.

Riavvolgendo il tempo, osserviamo la riduzione progressiva di ambedue i contributi fino alla scomparsa di entrambi, ovvero alla scomparsa sia delle particelle che dello stesso spazio in cui queste si muovono. È chiaro però che questo stato iniziale di “nulla” debba contenere quantomeno una certa dose di “informazione”. È vero che l’apparizione di certe forze piuttosto di altre avviene in relazione alla forma nella quale si sviluppa più o meno casualmente lo spazio, e soprattutto alle simmetrie che essa manifesta. Ciononostante il “nulla” iniziale deve quantomeno contenere la struttura matematica che relaziona le simmetrie con le forze. Ciò implica a sua volta la possibilità di trasferire una certa informazione basilare anche in assenza di energia. Adottando la terminologia suggerita da Paramhansa Yogananda (Autobiografia di uno Yogi, Ananda 2018) chiameremo il più piccolo pacchetto di tale informazione a-energetica “vitatrone”.

Ragioniamo adesso sul modello teorico fornito dalla Teoria del Campo di Ordinamento (Arrangement Field Theory – AFT). L’universo è costituito da innumerevoli “grani” (immaginiamo dei puntini, dei bottoni o delle minuscole bilie) connessi l’uno all’altro da delle “stringhe”. Per ogni coppia di grani esiste una stringa, ovvero ogni grano è connesso con tutti gli altri grani. Ad ogni grano è associato infine un valore di “volume”, mentre ad ogni stringa corrisponde un valore di “probabilità”, ovvero la probabilità che una qualunque misura od osservazione percepisca i due grani agli estremi della stringa come “uno accanto all’altro”.

Al principio tutti i valori di volume sono nulli e tutte le probabilità sono nulle. In altre parole, la struttura è puramente astratta e lo spazio non esiste. Al progredire del tempo assistiamo tuttavia ad una crescita più o meno casuale dei valori succitati, alimentati dall’energia negativa. Mentre i grani assumono un volume, ovvero occupano spazio, le stringhe si tendono e diventano dei veri e propri ponti che permettono il passaggio di energia tra i due grani con cui si connettono. In questo modo, avendo per ogni grano un volume e per ogni coppia di grani una relazione posizionale, viene in essere uno spazio dotato di volume (fornito dai grani) e di forma (determinata da chi è accanto a chi, ovvero da quali stringhe sono state tese). In base a quante e quali stringhe sono state tese, possiamo inoltre stabilire il numero di dimensioni dello spazio. L’osservazione quotidiana rivela che (a meno di dimensioni microscopiche chiuse su sé stesse) le dimensioni dello spazio percepito sono tre: larghezza, altezza e profondità. Sulle stringhe tese infine si sviluppano delle vibrazioni alimentate dall’energia positiva (la quale compensa l’energia negativa insita nel volume dei grani e nella tensione delle stringhe). Queste vibrazioni sono ovviamente le particelle.

Al principio, non essendovi differenziazione dell’ambiente in cui si muovono e non possedendo essi energia (trovandosi quindi allo Zero-Termico), i vitatroni debbono avere comportamento coordinato e costituire una sorta di Tutto armonico, ciò che in meccanica quantistica viene definito Condensato di Bose-Einstein. Poiché i vitatroni sono per definizione i contenitori della struttura matematica dell’universo in nuce, essi contengono evidentemente anche i principi della meccanica quantistica e sono i primi a rispettarli. Nel Condensato di Vitatroni è facilmente ravvisabile la Coscienza Primordiale, ovvero la Mente di Dio.

Al crescere della differenziazione, i vitatroni tendono presumibilmente a legarsi con la materia ordinaria, acquisendone i limiti. Ed occorre attendere la crescita in complessità delle strutture materiali e il conseguente sviluppo di connessioni (sinapsi) affinché i vitatroni possano di nuovo costituire dei Condensati (ovvero delle Coscienze). Stavolta però abbiamo a che fare con “stringhe” materiali (assoni e dendriti) che connettono solo un numero limitato di “grani” materiali (neuroni), facendo sì che in luogo di una sola Coscienza Cosmica emergano svariate Coscienze Individuali.

Notiamo tuttavia che l’inclusione di un vitatrone entro una particella non è mai definitiva. Gli elettroni che si muovono in assoni e dendriti vengono sparsi in tutto il corpo dal sistema nervoso degli organismi biologici per poi disperdersi a terra o nell’aria. E a fine percorso il vitatrone abbandona evidentemente il suo veicolo. Similmente, ogni cellula del nostro corpo decade e viene sostituita da una nuova cellula costruita con nuovi atomi che appartenevano prima ai nostri alimenti. È vero che la maggior parte dei neuroni nasce e muore con noi; tuttavia si è scoperto che, pur essendo i neuroni incapaci di riprodursi, il nostro sistema immunitario è comunque capace di produrre nuovi neuroni inviando un segnale di conversione (mediato dalla serotonina) alle cellule staminali presenti nel midollo osseo, nel tessuto adiposo e nel sangue. Così vengono rimpiazzati i neuroni fuori uso. (Abbattendo la produzione di serotonina, lo stress della vita moderna nella società occidentale è un inibitore del processo, favorendo la progressione di processi degenerativi tipo Alzheimer.)

Ciò che a noi interessa qui, è che la sostituzione dei neuroni e lo scambio di elettroni con l’ambiente esterno implica che i vitatroni non sono del tutto intrappolati nella materia. Come al principio dell’Universo, un vitatrone libero può percorrere qualunque stringa; in altre parole, dal punto di vista del vitatrone, per andare da qui alla Galassia di Andromeda, non esiste soltanto la strada ordinaria, che i nostri laboratori misurano in 2,5 milioni di anni luce, ma esiste anche una via “sotterranea” lungo la quale un qualsiasi pulviscolo di Andromeda si trova accanto al neurone in cui il vitatrone riposava fino a poco prima. È quel che accade in particolari Stati di Coscienza Non-Ordinari, quali sono inducibili mediante ipnosi, assunzione di sostanze psicotrope, meditazione profonda o respirazione olotropica. Stanislav Grof (Il Gioco Cosmico della Mente, Red 2000), nel suo lavoro di psichiatra all’Esalen Institute di Big Sur, California, è stato testimone di migliaia di esperienze di pazienti la cui coscienza in seguito all’assunzione di sostanze psicotrope si trasferiva in realtà lontane nel tempo e nello spazio.

E in effetti qui si parla anche di tempo, perché il modello teorico dell’Arrangement Field Theory prevede che una connessione elementare tra due grani esista non solo quando questi abitano sullo stesso foglio temporale, ma anche quando essi sembrerebbero separati dagli eoni dell’eternità. Così non solo un vitatrone potrebbe saltare dal mio neurone oggi ad Andromeda oggi, ma anche dal mio neurone oggi ad Andromeda fra un milione di anni, o dal mio neurone oggi al neurone di un T-Rex 67 milioni di anni fa. O addirittura alla Coscienza Primordiale prima del Big Bang.

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La Fisica della Realtà

Segue una raccolta di articoli su temi della fisica che si propongono come tentativi sempre più stretti di comprendere la natura fondamentale della realtà, ciò che Immanuel Kant indicò con Noumeno; essi si intrecciano con altre discipline quali psicologia, storia e neuroscienze, e costituiscono un’estensione ideale del mio saggio precedente intitolato Dalla Coscienza ai Buchi Neri (SoleBlu 2022).


<Scarica in formato pdf>


Se invece preferisci il cartaceo, la stessa raccolta puoi trovarla in appendice al summenzionato Dalla Coscienza ai Buchi Neri.


A sx, Copertina di Dalla Coscienza ai Buchi Neri; A dx, Fenomeno e Noumeno, Opera di Pino Santoro, disponibile qui.

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Meditazione Nilambana

Meditazione Nilambana

La pratica Nilambana è una tecnica per comunicare con il nostro Sé Superiore[1] che unisce elementi wiccan, il Reiki e la Psicologia Transpersonale. Per suo tramite eleviamo le nostre istanze di protezione, sostegno, illuminazione, liberazione ed aiuto nella guarigione.

Accedi alla scheda >>>

Come già espresso in passato, anche in relazione ai miei libri, ciò che scrivo è inevitabilmente il prodotto di una conoscenza incompleta. Esso sarà pertanto suscettibile di revisione da parte di chiunque abbia ottenuto una conoscenza superiore, purché ovviamente egli operi in favore di verità e di comprensione.


[1] Il Sé Superiore è quella parte del nostro inconscio che si trova ai margini del Samadhi, laddove ogni individualità cede il passo alla sola Coscienza Cosmica.

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La Società Degenere e la Fine della Morale

La Società Degenere e la Fine della Morale

Vi è nell’essere umano, una volta soddisfatti i bisogni di sopravvivenza fisica, una ben radicata spinta all’ottenimento di un significato per la propria esistenza. Ciò si realizza in due modi radicalmente differenti a seconda che tale esistenza si sviluppi nel contesto di una società che valorizza i particolarismi o di una che tende all’indifferenziazione.

Nel primo caso il soggetto scopre la diversità negli uomini che lo circondano; nota una varietà di razze, tradizioni, attitudini e talenti. Inizia perciò a pensare che egli stesso definisca qualche cosa di diverso o comunque raro. Si sofferma a scoprire le proprie doti e le proprie passioni e le sviluppa, e così facendo si accorge di possedere un “tesoro” utile alla collettività e si responsabilizza per preservarlo e garantirne la trasmissione. In questo modo si responsabilizza verso i propri simili, riconosce il proprio ruolo come determinante e sviluppa una morale. La società tutta si evolve.

Nel secondo caso, il soggetto, non potendo sopprimere la spinta alla propria significazione, è costretto a deviare verso l’identificazione, la quale avviene usualmente verso il suo incarico lavorativo (io sono “l’avvocato”, io sono “il responsabile”), verso un impegno comunitario (io sono “il sacrestano”, io sono “il tesoriere dell’associazione”), o verso un ruolo famigliare (io sono “il padre”, io sono “il marito”, io sono “il fidanzato”). Tale identificazione è solitamente una sola, e pertanto rende la stabilità dell’individuo precaria; allo stesso tempo è comune a molti soggetti, sicché l’individuo non matura alcun tipo di responsabilità morale, in quanto ci sarà sempre qualcun’altro in grado di svolgere la sua funzione. In tale stato, il soggetto vive una condizione pericolosissima. Se la sua identificazione viene messa a rischio, ad esempio se il partner paventa di rompere il fidanzamento, il soggetto percepisce un pericolo per la propria esistenza, nella sua interezza, ed è pertanto “costretto” a difendersi. Può ad esempio uccidere il partner, così che questi almeno non rimanga a sottolineare la sua “morte” esistenziale, confidando in un periodo di catalessi nel quale una nuova identificazione possa sostituire la prima. Peraltro ciò è facilitato dalla mancanza di moralità che consegue all’identificazione. C’è infine un terzo fattore di rischio, che deriva dalla disposizione di un “extra” energetico che era prima occupato nell’identificazione e che adesso, non trovando un utilizzatore nella coscienza, può riversarsi nell’inconscio collettivo, sfociando in figure archetipali come quella del “giustiziere”, con ulteriori rivolgimenti violenti.

Guardatevi da chi utilizza i casi di cronaca per omogeneizzare ulteriormente la società, accollando le colpe ad una presunta discriminazione di razza, religione, sesso o tradizione. Tale direzione è solo un passo in avanti verso il precipizio, e poiché ciò che scrivo non è frutto di genio ma di riflessione ordinaria, potete certamente scorgere il piano che soggiace a tali manovre.

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È Ancora Scuola?

È Ancora Scuola?

Il 1° Orrore è la burocrazia. A inizio anno dobbiamo redigere il programma. Dopo aver fatto l’elenco dettagliato di argomenti e sotto-argomenti, a fianco di ognuno vi sono tre caselle etichettate “conoscenze”, “competenze” e “abilità” da riempire in burocratese. Personalmente una laurea in fisica non mi è stata sufficiente a comprendere cosa vi si debba mettere, così il mio sforzo è sempre stato quello di scopiazzare qui e là dai documenti degli anni precedenti cambiando opportunamente le parole. E comunque, rivolgendomi a colleghi più anziani, mi è stato risposto che più o meno tutti fanno la stessa cosa. Sotto agli argomenti si devono poi mettere i metodi, i mezzi e perfino i luoghi, aula compresa. E ciò che viene messo in previsione, dev’essere riscritto a fine anno in conferma. Per finire si deve redigere una scheda di particolarismi ed eccezioni per ogni alunno segnalato dall’ULSS, e si consideri che allo stato attuale in un Istituto Professionale ciò può riguardare il 60% degli studenti di una classe. Anche qui si lavora in previsione; dopodiché, per ogni compito in classe, si deve aggiungere una scheda di conferma.

Una gran parte di questo numero è certamente dovuta all’eccesso di cortisolo in gravidanza e alle amorevoli “cure obbligatorie” dei primi mesi di vita; altri contributi vengono invece da genitori apprensivi e psichiatri compiacenti che uniscono le forze per facilitare il percorso al figlio. Che poi “facilitare” è ironico, visto che poi dovrà entrare a lavoro come tutti gli altri ma con meno preparazione.

Altro dramma burocratico sono i voti. Anche qui c’è una tabella a quattro colonne con descrittori e ammennicoli per ogni valore da 1 a 10, anche questi in una lingua che il mio cervello si rifiuta di imparare. Per costruire questa scheda si indicono almeno tre riunioni pomeridiane ad inizio anno, con possibili riunioni extra in itinere per le revisioni. Poi, teoricamente, per ogni valutazione si dovrebbe valutare attentamente che quanto svolto dallo studente nel compito implichi tutta la serie di traguardi presenti nella scheda; cosa che si facesse per davvero richiederebbe 45 minuti di correzione per il singolo compito. La realtà è che tutti sgattaiolano, e ciononostante la burocrazia riesce ad occupare il 75% dell’impegno di un insegnante. Si aggiungano le innumerevoli riunioni, variabili tra Consigli di Classe, Consigli di Dipartimento e Collegi Docenti. Quest’ultimi in particolare sono uno spasso: ogni volta viene convocato l’intero corpo docente, benché i comunicati riguardino in genere una dozzina di persone, variabili da incontro a incontro. Il resto si porta libri da leggere, gioca col telefono, chiacchiera col vicino o si porta i compiti da correggere, costretto per 3-4 ore sulle sedie più scomode del pianeta, irritato da come sta sprecando l’esistenza.

Come se non bastasse, di solito il preside aggiunge degli “incontri di formazione” che servono solo a far salire il suo punteggio e farlo salire nella graduato­ria per il provveditorato. Di certo presenziare ad un tizio raccomandato che legge delle slide non ha mai contribuito alla mia formazione. Ad uno di questi incontri ho sentito che il lavoro più importante per un insegnante sarebbe “mettere i voti”. Follia totale.

Si consideri come tali commedie rubino tempo alla preparazione delle lezioni, che ci si trova spesso a fare di fretta e meccanicamente, quando richiederebbe calma e passione.

Il lavoro in aula può essere ancora piacevole per chi possiede sufficiente empatia. Ma vi è un problema di autorità. La parola dell’insegnante può essere smentita in qualunque momento da quella del preside o addirittura del genitore, perdendo credibilità. Vi è infine divieto assoluto di esprimere la propria opinione ogni qualvolta essa diverga dal pensiero dominante; si è persino costretti a prender parte ad attività di condizionamento mentale in favore del sistema, divenendo complici della distruzione di una generazione, pena il licenziamento.

I programmi infine non hanno alcun significato. La scuola dovrebbe insegnare come dall’esperienza e dai documenti si traggano le conclusioni, dovrebbe incentivare il dibattito e il pensiero autonomo. Al contrario si danno nozioni da imparare a memoria, che lo studente dimentica nell’arco di poche settimane, con poche eccezioni che riguardano argomenti oggetto di passioni o che vengono applicati necessariamente nel lavoro. Non vi è nessuna istruzione per la vita pratica: non si insegna ad aprire una partita Iva od un mutuo, non si insegna a stirare o fare una lavatrice, non si insegna come fare piccole riparazioni, cucinare, usare il trapano, … E non vi è nessuna istruzione per la vita emozionale: non si insegna a gestire le emozioni, non si insegna ad affrontare una nevrosi o psicosi, non si insegna a meditare e non si trasmette il valore di una vita sana. Si consideri inoltre che spesso i docenti sono dei millennial frustrati che non hanno nulla da trasmettere nemmeno tramite l’esempio, quando invece ciò che servirebbe ai Gen. Z sarebbe l’entusiasmo di chi vive per le proprie passioni.

Quei pochi validi sono disincentivati ad interessarsi delle vite private degli studenti. Non solo si può rischiare un richiamo per aver sospeso il programma anche solo per un’ora. (Un’ora spesa ad ascoltare è considerata uno spreco di soldi pubblici, mentre il caviale gratis per i parlamentari non pare turbare nessuno.) Il richiamo potrebbe venire da genitori appunto ligi all’obbligo professionale, così come da genitori infastiditi dal nostro mettere il naso dove non ci riguarda. Il che è assurdo, considerato che per riuscire a trasmettere qualcosa è assolutamente necessario entrare in sintonia con l’allievo. Per la cronaca, tre richiami portano al licenziamento.

Infine si consideri che per entrare di ruolo è necessario comprare 60 crediti universitari. È ben noto, tutti li comprano. Non c’è il tempo per ottenere l’abilitazione regolarmente mentre si lavora. Peraltro il prezzo d’acquisto è irrilevante in confronto alla tassa statale che si aggira sui 2500 euro. Dopo l’abilitazione si partecipa al concorso (pagando la marca da bollo) e se si vince c’è l’anno di prova, durante il quale il candidato deve sobbarcarsi un’enorme quantità di lavoro extra sotto il ricatto di venire scartato.

Si consideri infatti che oltre alle mansioni obbligatorie ci sono dei compiti che sono facoltativi sulla carta, ma che qualcuno deve pur fare, e questo qualcuno è sempre il più debole, immancabilmente sotto ricatto e gratis. C’è il coordinatore di classe, c’è l’accompagnatore alle gite (che ci va gratis ma accetta di finire in galera se un minorenne si fa male), c’è il tutor, c’è il coordinatore di dipartimento, l’orientatore e, ciliegina sulla torta, quello che fa Educazione Civica. Forse non è noto, ma qualche anno fa è stato introdotto l’insegnamento (obbligatorio) dell’Educazione Civica senza prevedere un insegnante specifico. Così la si insegna a caso, secondo il metodo “scarica-barile”, senza che nessuno sappia esattamente cosa sta facendo e senza la minima voglia di farlo. Però c’è il voto. E tuttavia gli studenti non sono completamente scemi, e si accorgono che nemmeno il professore vorrebbe essere presente al proprio insegnamento, sicché non sono certo motivati ad impegnarsi.

Insomma, di fronte ad una classe insegnante demotivata, sottopagata, stressata, umiliata e priva di empatia, cosa pretendete possa uscire dalla scuola di oggi? La risposta è che ne esce esattamente ciò che il governo vuole, ovvero soggetti lobotomizzati, incapaci ad opporsi, incapaci di ragionamento critico, privi di un buon esempio e soprattutto impreparati alla vita.

Un plauso alla scuola va anche per la sua capacità di farti odiare quell’attività meravigliosa che è la lettura. Se devi leggere quel che scelgono Loro, se devi farlo dopo che hai dedicato ore ai loro inutili compiti per casa, se devi farlo con l’angoscia di compilare schede prive di significato, evidentemente la direzione è tracciata. Del resto, cosa c’è di meglio di un popolo che non si informa, che non corre il rischio di conoscere, di sapere cosa o chi c’è dietro a tutto questo, che non si chiede perché lavorare 8 ore quando ne basterebbero 4 (che non si chiede dove spariscono i soldi), che non si avvicina alla Verità?

Mi aspetto almeno di trovare presto una lapide alla quale inginocchiarmi, perché la scuola è morta. Eppure nessuno sembra essersene accorto.