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Il Sogno Collettivo

Il Sogno Collettivo

Estratto da Sandra Ingerman e Hank Wesselman, I Segreti degli Sciamani, Macro 2023, pp. 245-249

In quanto parte della comunità mondiale, i nostri pensieri e le nostre credenze sono elementi di un sogno collettivo. Abbiamo detto che il praticante sciamanico può diventare un maestro del sognare. José Stevens sottolinea che il sogno ha la natura di qualunque sistema energetico, a tutti i livelli di complessità e di consapevolezza:

«Da un punto di vista sciamanico, l’universo materiale in cui viviamo è un sogno collettivo e la vostra storia personale è un sogno individuale localizzato. Lo Spirito [la Fonte Primaria] non ha attaccamento per questi sogni. Potremmo dire che lo Spirito crea i sognatori e partecipa ai loro sogni.

I sognatori sono tutti gli elementi e i costituenti del piano fisico. Ogni elemento costitutivo ha il potere di sognare a livelli diversi di sofisticatezza. Il sogno di una pietra non è elaborato come il sogno di una farfalla, e il sogno di una farfalla è superato per complessità dal sogno di un cane. I sognatori più sofisticati sono gli esseri umani e i cetacei (delfini e balene). Siamo in grado di fare sogni incredibili; purtroppo, a causa di una commistione di amnesia, creatività, libero arbitrio ed egoismo, a volte i nostri sogni si trasformano in incubi.

È come se, nell’atto della creazione, lo Spirito avesse deciso per una politica di non ingerenza. Ha creato i sognatori e ha deciso di rispettare qualunque loro sogno, sapendo ovviamente che alla fine tutti i sognatori si sarebbero risvegliati ed avrebbero riconosciuto il fondamento comune dell’universo: l’amore.

Molte persone che devono affrontare vite particolarmente difficili maledicono lo Spirito, accusandolo di crudeltà. Ma se riflettete, lo Spirito non avrebbe potuto fare in altro modo senza limitare il libero arbitrio. Se non aveste la libertà di creare tutti i sogni che volete, potreste sentirvi delusi e lamentarvi che il sogno è truccato. La via amorevole dello Spirito è la totale libertà di sognare e di scoprire. Questa è una comprensione fondamentale della via sciamanica.

Da un punto di vista sciamanico, quando un grande numero di esseri umani si unisce, i loro sogni collettivi diventano molto potenti. A lungo su questo pianeta i sogni hanno riguardato la sopravvivenza; poi venne un lungo periodo di sogni focalizzati sull’ordine, le leggi, il controllo e la vita comunitaria; poi i grandi sogni di ambizione, potere e ricchezze materiali. Questi sogni si fondano sulla credenza che siamo esseri separati in competizione tra loro e che la forza creatrice dell’universo non esiste, oppure esiste sotto forma di una irata forza punitiva esterna. Oggi questi potentissimi sogni vecchi di secoli sono tutti interconnessi e forniscono una poderosa spinta all’umanità.

Il sogno collettivo ha sviluppato un ego personale, un’identità a sé stante fondata su ciò che è diventato: una lunga storia. Il sogno collettivo del pianeta ha un grande potere e sembra inghiottire tutto sul suo cammino. Nutre i sogni personali di tutte le persone su questo pianeta. Ritiene che il cibo più saporito sia il dramma, soprattutto se pieno di emozioni: rabbia, paura, invidia, gelosia e violenza. Il sogno collettivo non solo banchetta con queste cose, ma esige che tutte queste cose mantengano l’identità che il sogno ricorda. E così il sogno collettivo condiviso dagli uomini continua a provocare sempre nuovi traumi per avere cibo di cui nutrirsi, come una foresta in fiamme che esige famelicamente altri alberi per nutrire il fuoco dell’incendio. Questo sogno rafforza continuamente se stesso a ogni istante attraverso “sempre di più” della stessa cosa.

I sogni personali della maggior parte delle persone sono risucchiati in questo vortice e senza saperlo contribuiamo a questo immenso incubo. A volte sogniamo cose piacevoli come un rapporto amorevole, un lavoro soddisfacente e creazioni di grande bellezza, ma tutte queste cose non stimolano il sogno collettivo storico come fanno invece i traumi più profondi. Quindi, prima o poi, ognuno tende a cadere in questo grande sogno oscuro per venirne apparentemente vittimizzato e schiavizzato. Un maestro sciamano direbbe che gli esseri umani sono diventati pecore o mucche in fila per il macello. I risultati non sono belli.

Essendo un sogno, esso è di natura soggettiva, ma ha un’energia interna e il suo potere proviene da questa energia. Ciò significa che è alimentato letteralmente dai suoi sognatori che credono di non avere altra possibilità che sognare questo incubo collettivo. Invece possiamo scegliere.

Il punto di vista sciamanico è che un nuovo sogno è possibile, ma richiede che un numero sufficiente di sognatori si svegli dall’incubo collettivo e trasformi il proprio sogno. Alcuni sciamani e mistici sono riusciti a risvegliarsi dal sogno collettivo e, in certa misura, sono anche riusciti a svegliare altri influenzando il loro sogno. Ma in genere questi maestri non sono stati ascoltati, perché pochi esseri umani sono abbastanza maturi per capire quello che dicono. Qualcuno li ha seguiti e si è risvegliato dal suo personale contributo all’incubo collettivo, ma quasi tutti hanno incorporato le parole di quei maestri nel normale sogno senza svegliarsi affatto, esattamente come un dormiente può incorporare nel sogno che sta facendo il suono di una sirena che passa per strada.

Molti sciamani nativi credono che oggi, per la prima volta, esista a livello collettivo la possibilità per l’umanità di svegliarsi dal vecchio sogno negativo di massa. Abbiamo la possibilità di creare un nuovo sogno, un sogno che consenta ai sognatori di risvegliarsi all’interno del loro sogno e scoprire che stanno sognando, in modo da assumere il controllo cosciente sul sogno. Il nuovo sogno potrebbe includere tutto ciò che desideriamo di più: cooperazione, condivisione, rapporti amorevoli, coesistenza pacifica, grande creatività che produce grande bellezza e ispirazione, guarigione di massa e coesistenza sostenibile con la Natura».

Hank Wesselman offre le seguenti considerazioni, derivate da molti anni di vita assieme a popolazioni tribali tradizionali:

«Le popolazioni native sanno che ogni creatura ha dei compiti adatti a ciò che è. Solo se questi compiti vengono svolti, e nel modo giusto, l’universo può funzionare in modi che accrescono la vita per tutti. Se uno qualunque fallisce nei suoi compiti, tutti ne soffrono. Ciò significa che ogni pensiero che pensiamo, ogni azione che facciamo, ogni parola che diciamo, ogni rapporto che viviamo e ogni emozione che proviamo contribuisce a un benessere maggiore o a una maggiore sofferenza.

In quanto maestri del sogno, i praticanti della via sciamanica hanno una straordinaria responsabilità. Se guardiamo le condizioni del mondo moderno, delle nostre società, comunità e famiglie, è evidente che è venuto il momento di sognare bene per contribuire al bene del tutto. Se lavoriamo assieme, possiamo trasformare il mondo».

Anche Sandra Ingerman sottolinea il nostro incredibile potenziale per creare cambiamenti nelle nostre comunità locali e nella comunità globale. In un suo viaggio sciamanico ricevette il seguente messaggio:

«In futuro le storie che i genitori racconteranno ai bambini non riguarderanno più un eroe o un’eroina che salva il mondo. Parleranno di come comunità di persone si siano unite per produrre cambiamenti positivi per il mondo».

Iniziando a viaggiare sciamanicamente assieme e a condividere i nostri talenti, le nostre capacità e i messaggi che riceviamo, creiamo un’energia collettiva che col tempo porterà cambiamenti positivi e guarigione per il pianeta.

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L’Arca di Gabriele, l’Incidente a La Mecca e l’Antartide

L’Arca di Gabriele e i Segreti dell’Antartide

Estratto dal libro omonimo di Nicola Bizzi, Aurora Boreale 2023

Scoperta nella seconda metà del XVIII secolo, l’Antartide è stata esplorata solo a partire dalla metà dell’800, ed è ancora oggi lontana dal fornirci un completo prospetto del suo territorio. In base al Trattato Antartico del 1959, firmato ad oggi da 46 paesi, il continente di ghiaccio non appartiene politicamente ad alcuna nazione, può essere utilizzato esclusivamente per scopi pacifici (come la ricerca scientifica) e vi sono vietate le attività di sfruttamento economico e di tipo militare. Il Trattato sospende inoltre tutte le precedenti rivendicazioni territoriali – esposte da Argentina, Australia, Cile, Francia, Nuova Zelanda, Norvegia e Regno Unito – le quali interessavano l’intero territorio ad eccezione dello spicchio compreso tra i meridiani 90° W e 150° W.

L’Antartide è nota agli indagatori dell’ignoto per la presenza su di essa, dagli anni ‘30 fino alla conclusione della II Guerra Mondiale, di imponenti basi militari e di installazioni sotterranee realizzate dalla Germania di Hitler; e per la controversa Operazione Highjump (ufficialmente The United States Navy Antarctic Developments Program 1946-47), un’azione di guerra guidata dal contrammiraglio Richard Evelyn Byrd e dal vice-ammiraglio Richard Cruzen finalizzata all’espugnazione delle basi militari tedesche ancora pienamente operative a distanza di oltre un anno dalla fine del conflitto.

L’operazione ebbe inizio il 26 Agosto 1946 e continuò sino al 1947, impiegando 4.700 uomini, 13 navi e diversi aerei. Potremmo poi parlare a lungo delle esplorazioni condotte in Antartide dallo stesso Contrammiraglio Byrd e delle rivelazioni di quest’ultimo, addirittura in interviste televisive, dell’esistenza nel Sesto Continente di immense aree verdi dal clima temperato e dei suoi incontri con una razza aliena altamente civilizzata stanziata nelle profondità del sottosuolo, messi nero su bianco nei suoi diari. Nel 1947 Byrd compì un volo esplorativo al Polo Sud che ancora oggi non manca di suscitare una serie di domande. Spintosi 1.700 miglia “oltre” il Polo geografico, cominciò a notare una trasformazione radicale dell’ambiente sorvolato che lo lasciò stupefatto. L’ammiraglio raccontò di essersi addentrato nei cieli di un territorio verdeggiante, un ambiente totalmente diverso da quello ghiacciato e inospitale che si sarebbe aspettato. A terra era possibile osservare una vegetazione lussureggiante e rigogliosa tipica di territori con temperature medie molto superiori a quelle che caratterizzano il rigido clima polare. Le osservazioni dell’ammiraglio non si limitarono alla sola flora: nel diario di bordo annotò di aver osservato un animale dalla stazza notevole, simile ai mammut dell’età preistorica, che si muoveva nella vegetazione sottostante:

«Devo scrivere questo diario di nascosto e in assoluta segretezza. Riguarda il mio volo antartico del 19 Febbraio dell’anno 1947. Verrà un tempo in cui la razionalità degli uomini dovrà dissolversi nel nulla e si dovrà allora accettare l’ineluttabilità della Verità. Io non ho la libertà di diffondere la documentazione che segue, forse non vedrà mai la luce, ma devo comunque fare il mio dovere e riportarla qui con la speranza che un giorno tutti possano leggerla, in un mondo in cui l’egoismo e l’avidità di certi uomini non potranno più sopprimere la Verità. […] Distese di ghiaccio e neve sotto di noi, notate delle colorazioni giallognole con disegni lineari. Alterata la crociera per un migliore esame di queste configurazioni colorate, notate anche colorazioni violacee e rossastre. […] Sia la bussola magnetica che la girobussola cominciano a ruotare e ad oscillare, non ci è possibile mantenere la nostra rotta con la strumentazione. Rileviamo la direzione con la bussola solare, tutto sembra ancora a posto. I controlli sembrano lenti nel rispondere e nel funzionare, ma non c’è indicazione di congelamento. […] 29 minuti di volo trascorsi dal primo avvistamento dei monti, non si tratta di un’allucinazione. È una piccola catena di montagne che non avevamo mai visto prima. […] Oltre le montagne vi è ciò che sembra essere una vallata con un piccolo fiume o ruscello che scorre verso la parte centrale. Non dovrebbe esserci nessuna valle verde qua sotto! C’è qualcosa di decisamente strano e anormale qui! Dovremmo sorvolare solo ghiaccio e neve! Sulla sinistra ci sono grandi foreste sui fianchi dei monti. I nostri strumenti di navigazione girano ancora come impazziti. […] Altero l’altitudine a 1400 piedi ed eseguo una sterra virata completa a sinistra per esaminare meglio la valle sottostante. È verde con muschio ed erba molto fitta. La luce qui sembra diversa. Non riesco più a vedere il Sole. Facciamo un altro giro a sinistra e avvistiamo ciò che sembra essere un qualche tipo di grosso animale. Assomiglia ad un elefante! No! Sembra essere un mammut! È incredibile! Eppure è così! Scendiamo a quota 1000 piedi ed uso un binocolo per esaminare meglio l’animale. È confermato, si tratta di un animale simile al mammut. […] Incontriamo altre colline verdi. L’indicatore della temperatura esterna riporta 24° C. Ora proseguiamo sulla nostra rotta. Gli strumenti di bordo sembrano normali adesso. Sono perplesso circa le loro reazioni. Tento di contattare il campo base. La radio non funziona. […] Il paesaggio circostante sembra livellato e normale. Avanti a noi avvistiamo ciò che sembra essere una città! È impossibile! L’aereo sembra leggero e stranamente galleggiante. I controlli si rifiutano di rispondere! Alla nostra destra e alla nostra sinistra ci sono apparecchi di uno strano tipo. Si avvicinano e qualcosa irradia da essi. Ora sono abbastanza vicini per vedere i loro stemmi. È uno strano simbolo. Dove siamo? Cosa è successo? Ancora una volta tiro decisamente i comandi. Non rispondono! Siamo tenuti saldamente da una sorta di invisibile morsa d’acciaio».

Tornando ai nostri tempi, da svariati anni si susseguono, prevalentemente su Internet, notizie – non sempre verificabili – della scoperta o dell’avvistamento in Antartide di antiche rovine, tratti di mura megalitiche, antiche strutture di fattura chiaramente artificiale e addirittura piramidi. Esiste a riguardo un vastissimo repertorio di fotografie e immagini satellitari, benché non vi siano state delle conferme ufficiali da parte dell’establishment archeologico, chiaramente restio ad accettare l’idea della passata esistenza di una civiltà preistorica sconosciuta nel continente tutt’oggi meno accessibile della Terra.

L’idea che il continente antartico, anticamente privo della coltre di ghiacci che oggi lo sovrasta, possa essere stato in un remoto passato la sede di una civiltà avanzata al punto di aver eseguito una dettagliata mappatura dell’intero pianeta, avvalendosi di avanzate conoscenze astronomiche e padroneggiando i mari con le proprie flotte, si era fatta strada già nella prima metà del ‘900 con gli esami condotti su diversi portolani del XV e XVI secolo – ricavati da mappe più antiche – che mostravano l’esistenza di un continente ancora da scoprire al polo sud di cui più tardi sarebbe stata rilevata la corrispondenza con il profilo dell’Antartide libera dai ghiacci. Tali stranezze si connettono con un particolare evento occorso pochi anni fa in Arabia Saudita.

Fonti variegate che tuttavia concordano nei dettagli, riportano che fra l’11 e il 12 Settembre 2015, nel corso di uno scavo nei sotterranei della Grande Moschea della Mecca, un gruppo di operai avrebbe riportato alla luce un antico manufatto, identificato come l’“Arca di Gabriele”, risalente al tempo del profeta Maometto. Nel tentativo di rimuovere l’“Arca” dalla propria collocazione, ben 15 operai coinvolti nell’operazione sarebbero morti folgorati da una imprecisata “energia”, a quanto pare una forte scarica di plasma, improvvisamente emanatasi dal manufatto. L’esplosione sarebbe stata così violenta da uccidere anche 107 ignari pellegrini che si trovavano al piano superiore, all’interno del complesso dell’edificio sacro. Si tratta di vittime reali, di cui parlarono all’epoca tutti i telegiornali, benché le autorità saudite si trovarono costrette ad attribuire l’incidente a cause accidentali. La versione ufficiale, diramata alla stampa e alle televisioni, fu quindi che un incidente cantieristico nel sottosuolo della Moschea avrebbe scatenato il panico in superficie, provocando un fuggi-fuggi culminato nella carneficina. Ciononostante il giorno successivo molti giornali diffusero le fotografie di insoliti fulmini rossi e violacei che si erano scatenati nel cielo sopra la Grande Moschea al momento dell’incidente, cielo che fino a pochi istanti prima era assolutamente terso e senza nuvole.

Un secondo tentativo di rimuovere questo misterioso “dispositivo” sarebbe stato messo in atto il 24 Settembre successivo, scatenando stavolta un incidente ancora più grave: secondo alcune fonti, un’altra violenta scarica di plasma avrebbe provocato ben 4.000 vittime, una parte delle quali morte all’istante, come fulminate, e le altre rimaste schiacciate dalla folla terrorizzata e in preda al panico. Di nuovo le autorità saudite attribuirono l’incidente alla fuga precipitosa di una folla di pellegrini spaventati e senza controllo. Cosa li avesse spaventati, i comunicati non lo specificano.

Una volta resisi conto della situazione e compresa la vera natura e pericolosità, del “manufatto”, i Sauditi, consci soprattutto della loro impossibilità di gestire o controllare un simile oggetto di potere, decisero di rivolgersi segretamente ai Russi. Ma, si badi bene, non solo alle autorità politiche della Federazione Russa, ma anche alla Chiesa Ortodossa e alla sua massima autorità, il Patriarca Kirill.

Secondo quanto è trapelato, il Patriarca Kirill sarebbe stato contattato direttamente dagli emissari della suprema autorità religiosa che custodisce e amministra i luoghi santi della Mecca, poiché soltanto lui avrebbe avuto, come spiegherò, le informazioni necessarie per mettere in sicurezza l’“Arca di Gabriele”, un “oggetto di potere” non umano che secondo la Tradizione Islamica il Profeta Maometto avrebbe ricevuto direttamente dall’Arcangelo Gabriele, lo stesso che aveva diretto la punizione divina contro Sodoma e che viene tipicamente rappresentato come l’“Angelo della Morte” o l’“Angelo del Fuoco”.

Nella Tradizione Islamica, Gabriele è il tramite attraverso cui Allah rivela a Maometto il Sacro Corano, in una grotta della Jabal Al-Nour (letteralmente “Montagna di Luce”), una collina rocciosa di 642 metri che si erge nei pressi della Mecca. Nella medesima grotta, chiamata “Hira”, Gabriele avrebbe inoltre affidato alle cure di Maometto anche un’“arca” di immenso potere, vietandone l’uso e incaricandolo di seppellirla in un santuario presso il “Luogo di culto utilizzato dagli Angeli prima della creazione dell’uomo”, in attesa del “Giorno della Risurrezione”. L’Arcangelo avrebbe infine lasciato a Maometto delle particolari “istruzioni” per la gestione dell’Arca, trascritte in seguito in un manoscritto islamico noto come Istruzioni di Gabriele a Maometto.

Tale manoscritto risultava conservato fino al 1204 nella Basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, finché quell’anno sarebbe stato messo in salvo dai monaci durante il saccheggio della stessa Basilica da parte dei Veneziani nel contesto della Quarta Crociata e segretamente trasportato in Russia, dove sarebbe stato custodito fino ad oggi dalla Chiesa Ortodossa. Ciò spiegherebbe perché le autorità saudite si siano affrettate a contattare il Patriarca Kirill, il solo al mondo che detenesse le “istruzioni” per mettere in sicurezza l’“Arca”.

Da molti storici e ricercatori è stato ipotizzato che l’“Arca di Gabriele” fosse una sorta di “gemella” dell’“Arca dell’Alleanza”, che come sappiamo era custodita nel Sancta Sanctorum del Tempio di Gerusalemme.

Anche all’“Arca dell’Alleanza” sono stati attribuiti incredibili poteri, tra cui quello di scatenare potenti forme di energia capaci di uccidere all’istante chiunque osasse toccarla o manometterla senza adottare delle specifiche precauzioni. Stando all’Antico Testamento, nell’antichità solo i Leviti avevano facoltà di toccarla e di trasportarla.

Tali analogie tra l’Arca di Gabriele e l’Arca dell’Alleanza, soprattutto alla luce degli inquietanti episodi verificatisi alla Mecca nel 2015, trovano storicamente un’importante conferma nella testimonianza dello storico romano Ammiano Marcellino. Nelle Rerum Gestarum (lib. XXIII, 1) Marcellino testimonia che durante il principato dell’imperatore Giuliano (361-363 d.C.), quest’ultimo permise agli Ebrei di ricostruire il Tempio di Gerusalemme che era stato incendiato nel 70 d.C. dalle legioni guidate da Tito. L’Imperatore intendeva garantirsi il sostegno del potente clero di Gerusalemme per coprirsi le spalle nel momento in cui stava preparando quella spedizione militare contro i Parti che gli sarebbe risultata fatale. I lavori per la riedificazione del Tempio, guidati dal sovrintendente Alipio, furono più volte interrotti e ripresi (fino alla sospensione definitiva) a causa della misteriosa comparsa di “sfere di fuoco” che, sprigionatesi dalle fondamenta dell’edificio, devastarono il cantiere provocando il ferimento di molti operai:

«In quell’anno [il 363 d.C.], sebbene Giuliano, considerando con attenzione differenti questioni, si occupasse con notevole zelo dei preparativi della spedizione [contro i Parti], tuttavia affidando la gloria sua e dell’Impero alla realizzazione di grandi imprese, progettava di ricostruire il Tempio di Gerusalemme. L’edificio era stato un tempo magnifico e, dopo numerose e cruente battaglie, era stato assediato da Vespasiano ed espugnato da Tito. Giuliano pensava dunque di riedificarlo con ingenti spese, affidando il compito ad Alipío di Antiochia, che era stato suo sotto governatore in Britannia. Perciò, mentre Alipio si adoperava nella costruzione con l’ausilio del governatore della provincia, dei globi di fuoco, quasi erompendo dalle fondamenta, con frequenti assalti impedirono agli operai, molti dei quali furono ustionati, di accedere al luogo ed in questo modo, a causa delle fiamme che tenevano lontano gli operai, il lavoro cominciato venne interrotto».

Tale episodio potrebbe provare che l’Arca, ancora al tempo di Giuliano, si trovasse nascosta e ben protetta nei sotterranei del Tempio, distrutto nel 70 d.C. dalle legioni romane. Guarda caso, proprio nel luogo in cui, secoli più tardi, i Templari avrebbero condotto i loro misteriosi scavi archeologici, probabilmente trovandola e mettendola in sicurezza, dapprima nel Tempio di Parigi e più tardi in un luogo segreto del Nuovo Continente (probabilmente nel “Pozzo di Oak Island”, dopo l’imbarco a La Rochelle per sfuggire agli sgherri di Filippo il Bello).

Tornando alle incredibili vicende del 2015, quando il Presidente Vladimir Putin fu informato della situazione (il 27 Settembre, appena tre giorni dopo il secondo “incidente”), questi si accordò immediatamente con le autorità saudite, ordinando ai suoi uomini di pianificare quella che molto probabilmente è stata la spedizione navale più assurda che la storia recente ricordi. Putin avrebbe così salvato l’Arabia Saudita da una situazione e da una minaccia che essa non era in grado di gestire o di controllare da sola, ottenendo in cambio una notevole contropartita: un tacito via libera per l’operazione militare russa in Siria in difesa del Presidente Bashar Al Assad e un’immediata interruzione dei finanziamenti wahabiti alle formazioni terroristiche che stavano mettendo a ferro e fuoco il paese mediorientale. Tre giorni più tardi, il 30 Settembre 2015, le forze aeree iniziarono così a bombardare pesantemente i terroristi dell’Isis e le altre formazioni islamiche antigovernative. E alcuni satelliti militari furono appositamente messi in orbita per garantire la sicurezza della spedizione navale che i Russi stavano allestendo.

Pochi giorni dopo una nave russa attrezzata per le ricerche oceanografiche, la Admiral Vladimirski, ormeggiò nel porto saudita di Gedda, non distante dalla Mecca, con a bordo un insolito e variegato equipaggio, composto da funzionari politici e diplomatici, militari, tecnici, scienziati ed alti esponenti del clero ortodosso, fra cui lo stesso Patriarca Kirill. Seguendo minuziosamente le istruzioni del Patriarca, i tecnici, gli scienziati e i militari russi, coadiuvati dai Sauditi, sarebbero riusciti a mettere in sicurezza l’Arca di Gabriele, a rimuoverla dal sotterraneo della Grande Moschea della Mecca e a trasportarla fino al porto di Gedda. Lì giunta, sarebbe stata infine caricata sulla Admiral Vladimirski. La nave sarebbe poi ripartita da Gedda l’8 Dicembre del 2015, diretta verso l’Antartide, scortata da una potente flotta militare capitanata dall’incrociatore lanciamissili Varyag e dalla nave da battaglia Bystry. Poche settimane più tardi, lo stesso Patriarca Kirill si è fatto fotografare tra i pinguini in Antartide. Il motivo diramato della sua presenza al polo sud riguardava la benedizione di una chiesetta ortodossa costruita per il personale delle basi scientifiche russe.

Secondo ulteriori indiscrezioni, in Antartide, in un’area controllata dalle forze armate russe (anche se ufficialmente adibita a sole ricerche scientifiche), sarebbe poi stato condotto un antico rituale sotto la guida del Patriarca Kirill e del Custode dei Luoghi Santi della Mecca, mediante l’utilizzo delle Istruzioni di Gabriele a Maometto e di un altro manoscritto appositamente consegnato a Kirill il 12 Febbraio da Papa Francesco durante il loro incontro all’Avana, a Cuba. Un incontro storico, in cui le massime autorità della Chiesa Cattolica Romana e di quella Ortodossa Russa si sono trovate faccia a faccia dopo quasi mille anni.

Curiosamente, il giorno precedente all’incontro fra Francesco e Kirill, un fulmine molto simile a quelli scatenatisi sulla Mecca, aveva colpito la sommità della cupola della Basilica di San Pietro a Roma! Esattamente com’era successo l’11 Febbraio del 2013, giorno rinuncia di papa Benedetto XVI.

Quanto al manoscritto consegnato a Kirill da Francesco, si tratterebbe di un testo mai divulgato la cui redazione viene attribuita ai cosiddetti “Vigilanti” di cui fa menzione il più noto Libro di Enoch.

Il complesso rituale si sarebbe svolto il 17 Febbraio 2016 nella chiesa ortodossa russa della Santissima Trinità, l’unica chiesa presente in Antartide. Subito dopo, il “misterioso artefatto” sarebbe stato trasportato in profondità da un’unità di forze speciali.

Trascorsi alcuni mesi, l’11 Novembre 2016 il Segretario di Stato americano John Kerry è volato a sua volta in Antartide, dove ha preso parte ad una discussione per la firma di un nuovo trattato intergovernativo, in base al quale le visite private in Antartide sarebbero state chiuse per i successivi 35 anni. Nell’occasione, Kerry si sarebbe recato in sopralluogo presso un’area dell’Antartide dove da tempo era in corso lo scavo di un enorme complesso urbano riconducibile a una civiltà preistorica precedente l’arrivo dei ghiacci (12.600 a.C.).


AntarcticLand e il Sovrano Ordine dei Cavalieri di Ghiaccio

Nel XVI secolo Malta divenne il reame indipendente dei Cavalieri Ospitalieri, donato di comune accordo da papa Clemente VII e dall’imperatore Carlo V d’Asburgo.

Quando le truppe napoleoniche conquistarono l’isola (1798), i cavalieri dovettero rifugiarsi presso regnanti e nobili amici. Il nucleo principale si spostò in Russia, dove lo zar Paolo I ottenne la carica di Gran Maestro. Altri gruppi ripararono a Roma, protetti da papa Pio VII, e in Inghilterra, sotto la tutela di re Giorgio III Hannover. Alla morte di Paolo I, nel 1801, la nomina del Gran Maestro venne affidata al papa, che assegnò la carica a Fra’ Bartolomeo Ruspoli, predecessore di Fra’ Giovanni Battista Tommasi.

I rapporti tra Russia e Ospitalieri iniziarono già nel 1697, quando lo zar Pietro il Grande inviò una delegazione a Malta guidata dal maresciallo Boris Sheremetev, avente lo scopo di osservare l’addestramento e le abilità dei Cavalieri e della loro flotta. Sheremetev stabilì con essi relazioni diplomatiche e venne investito del titolo onorifico di “Cavaliere della Devozione dell’Ordine”.

Lo zar Paolo I morì assassinato in una congiura di corte nel 1801. Il timore di nuovi attentati si impadronì da subito del nuovo zar Alessandro I, figlio ed erede di Paolo. Nel 1818 gli ufficiali della Guardia Imperiale organizzarono il rapimento del sovrano in occasione del Congresso di Aix-la-Chapelle, ma per sua fortuna la cospirazione fu soffocata nel sangue da un manipolo di Ospitalieri. Ancor più preoccupato per la propria incolumità, Alessandro patrocinò la costituzione di un commando speciale segreto all’interno dei Cavalieri di Malta affinché si occupasse della sua protezione. Il nuovo corpo assunse il nome di “Ordine dei Cavalieri di Ghiaccio” e la sua luogotenenza venne affidata all’ammiraglio della flotta imperiale, Fabian Gottlieb Benjamin von Bellingshausen (1778-1852), in ricompensa dei servizi resi.

Bellingshausen era nato nel maniero Lahhentagge, Saaremaa, Governatorato di Livonia, oggi parrocchia di Salme nella contea di Saare, in Estonia. Si arruolò come cadetto nella Marina imperiale russa all’età di dieci anni. Laureato ad appena 18 anni all’Accademia Navale di Kronstadt, Bellingshausen guadagnò rapidamente il grado di capitano. Alessandro lo nominò “Gran Maestro dei Cavalieri di Ghiaccio”, chiedendo a lui e ai suoi uomini il voto del segreto. Non è chiaro se Bellingshausen fosse già stato un ospitaliere o se avesse ricevuto l’investitura in quel momento. Non sappiamo neppure se avesse avuto un ruolo nella difesa di Alessandro durante la cospirazione. Possiamo però ragionare in merito. Secondo logica militare, l’esistenza stessa di un corpo d’élite è vincolata al carisma del suo comandante, il quale si premunisce di accostare a sé un successore negli ultimi anni del suo servizio, così che i sottoposti riconoscano nel secondo la naturale prosecuzione del primo. Un cambio al vertice imposto dall’esterno, anche se si fosse trattato di un sovrano, sarebbe stato visto come abuso di ufficio, un gesto arrogante che avrebbe suscitato l’astio dell’intera squadra. Trattandosi in questo caso di un corpo di protezione, il sovrano suddetto avrebbe reso seriamente precaria la propria sicurezza. Perciò è molto improbabile che l’impaurito Alessandro avesse commesso una simile imprudenza. Di conseguenza Bellingshausen doveva già essere una figura di rilievo all’interno dell’ordine ospitaliero.

Nel 1819 lo Zar autorizzò una spedizione nei mari del Sud alla ricerca di quella Terra Australis che compariva in numerosi portolani. L’ammiraglio Bellingshausen era a bordo della Vostok, una corvetta di 600 tonnellate e 117 uomini di equipaggio. Ad affiancarlo c’era la Mirnyj, un vascello da trasporto di 530 tonnellate con a bordo 72 uomini, governato da Michail Petrovič Lazarev. Lo Zar avrebbe inoltre rinunciato ai nuovi territori lasciandone il possesso ai Cavalieri che gli avevano salvato la vita.

Nella terza settimana di luglio salparono alla volta di Portsmouth, sulla costa meridionale dell’Inghilterra. Bellingshausen si incontrò a Londra con il presidente della Royal Society, Sir Joseph Banks, che 50 anni prima aveva navigato insieme a James Cook. Banks fornì alla spedizione libri e cartine per la navigazione.

La Royal Society è quella fratellanza di pensatori che nel XVII secolo aveva creato la moderna massoneria, aprendo le Logge dei Costruttori (create dai monaci benedettini nel VI secolo – assorbendo i collegia romani – e laiche almeno dal XV) anche agli intellettuali non legati all’arte muratoria. Tra questi in particolare rientravano i Rosa+Croce fuggiti da Praga durante la guerra dei 30 anni.

All’inizio del XIX secolo i sovrani inglesi della casata di Hannover (come il succitato Giorgio III) sostennero generosamente un nuovo rito massonico noto come “Stretta Osservanza”, fondato nel 1756 dal barone tedesco Karl Gottlieb von Hund. Il rito ripristinava il carattere cristiano della Loggia e introduceva nuove cerimonie appartenute agli ordini crociati, come i Templari o gli stessi Ospitalieri.

Negli anni di Caterina II (r. 1762-1796, madre di Paolo I) la flotta russa era comandata dal principe Federico Guglielmo di Nassau-Weilburg, figlio maggiore del principe Carlo Cristiano di Nassau-Weilburg e della Principessa Carolina d’Orange-Nassau. Federico Guglielmo era imparentato con la Casa Regnante Inglese (i soliti Hannover) e sarebbe stato il trisnonno dell’arciduca Francesco Ferdinando, il cui assassinio avrebbe fatto da miccia per la prima guerra mondiale. Potremmo supporre che anche Federico Guglielmo fosse stato un cavaliere ospitaliero, come il suo successore Bellingshausen.

La comunanza del carattere cristiano, la vicinanza alla Royal Society e l’onnipresenza degli Hannover, ci fanno sospettare che i Cavalieri Ospitalieri e la Massoneria di Stretta Osservanza lavorassero di fatto come un corpo unico.

Altro dato interessante è la creazione di un protettorato gesuita sui Cavalieri di Malta negli anni che vanno dal 1798 al 1814. Fondati nel 1534 dal sacerdote basco (sospetto alumbrado) Ignazio di Loyola, già alla fine del secolo furono incaricati di strutturare i servizi segreti vaticani da papa Clemente VIII (r. 1592-1605).

All’inizio del XVIII secolo i Gesuiti erano potenti a tal punto che la loro “attività” aveva messo in subbuglio mezza Europa. Per questo motivo, attorno alla metà dello stesso secolo, furono letteralmente espulsi da Portogallo, Francia, Spagna e Malta. L’Ordine fu addirittura soppresso da papa Clemente XIV nel 1773: la Compagnia sopravvisse però in Russia, dove la zarina Caterina II rifiutò l’exequatur al decreto papale.

Tra il 1798 e il 1814 troviamo quindi insieme i Cavalieri Ospitalieri e i Gesuiti nella Russia di Paolo I e Alessandro I. In quegli anni l’Ordine dei Gesuiti venne riformato, tanto da far ipotizzare un cambiamento di “padrone”. I Cavalieri di Malta, che nel 1768 avevano espulso i Gesuiti dalla loro isola, in Russia accettarono di porsi al loro servizio. Nel 1814, in concomitanza al Congresso di Vienna (Restaurazione), l’Ordine dei Gesuiti fu ricostituito ufficialmente da papa Pio VII, lo stesso papa che aveva accolto gli Ospitalieri a Roma.

Torniamo però ai Cavalieri di Ghiaccio. Nel 1820 la spedizione dell’ammiraglio Gottlieb von Bellingshausen scoprì l’Antartide; l’anno successivo Gottlieb cambiò il nome dell’Ordine dei Cavalieri di Ghiaccio in “Sovrano Ordine dei Cavalieri di AntarcticLand”, votando i suoi uomini alla difesa del nuovo continente. Le nuove terre appartenevano allo Zar, che tuttavia ne fece dono ai cavalieri, lasciando loro la completa indipendenza dalla Russia (da cui il titolo di ordine “sovrano”). Il nome AntarcticLand è stato ufficializzato nel 2007 nell’ambito della rifondazione e modernizzazione dello Stato.[1]

Al ritorno della spedizione, per volere dello stesso Zar non venne dato gran risalto alla scoperta. Non si sa bene in quale modo, e in totale segreto, il Sovrano Ordine riuscì a mantenere il controllo su una vasta porzione del Continente per oltre due secoli (dal 1820 ad oggi), influenzando le potenze mondiali in modo tale da non far loro occupare o reclamare il territorio che si estende dal Polo Sud ai 60° S di latitudine, compreso tra le longitudini 90° W e 135° W.

Non esiste infatti altra spiegazione al fatto che questo territorio, esteso poco meno di Portogallo, Spagna, Francia, Italia e Svizzera messi insieme, non sia mai stato reclamato da quelle potenze che negli ultimi due secoli hanno avanzato pretese formali sull’Antartico.

Considerato il nuovo contesto mondiale, l’anacronismo di una società segreta e la necessita di difendere la Sovranità del territorio rimasto sotto il controllo dell’Ordine, i Cavalieri sono stati sciolti dal voto del segreto; l’Ordine ha attualizzato il proprio nome in “Sovrano Ordine dei Cavalieri di AntarcticLand” e nel 2007 il territorio è stato ufficialmente reclamato come Nazione, con il nome di AntarcticLand, dal  42° Gran Maestro dell’Ordine, Giovanni Caporaso Gottlieb, attraverso un atto di richiesta di riconoscimento e di rivendicazione ufficiale del proprio territorio, notificato alle Nazioni Unite attraverso la Corte Suprema di New York.

La notifica è stata effettuata in base alla legge jus gentium e al diritto di autodeterminazione dei popoli riconosciuto dalla Magna Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti regionali e internazionali. Tra queste: la Dichiarazione dei Principi di Legge Internazionale sulle Relazioni Amichevoli e Cooperazione tra gli Stati adottata dall’Assemblea Generale delle NU nel 1970; l’Helsinky Final Act adottato dalla Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (CSCE) del 1975; l’African Charter of Human and Peoples’ Rights del 1981; la CSCE Charter of Paris per la Nuova Europa adottata nel 1990; la Dichiarazione di Vienna – Programma d’Azione del 1993[2].


[1] Link al sito governativo: https://antarcticlands.org/antarcticland/

[2] Riaffermata dalla Corte Internazionale di Giustizia in Namibia (caso del Sahara Occidentale) e a Timor Est (per cui il diritto è stato riconosciuto erga omnes).

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Il Tesoro di Ezzelino da Romano

I Da Romano erano i discendenti dell’ecista Arpis, figlio di Alceo, nobile quest’ultimo di sangue faraonico che aveva maritato la figlia del vescovo gnostico Ulpiano, uno dei convenuti al Concilio di Nicea (325 d.C.). Recependo l’incarico del vescovo Frediano, successore di Ulpiano, nel 383 d.C. Arpis aveva guidato una parte della comunità cristiano-gnostica dall’Egitto alla Venetia via mare per scampare alle persecuzioni del vescovo canonico alessandrino Timoteo.

Stabilitisi sui Colli Iberici, nel territorio dell’attuale comune di Castagnero, nel 569 d.C. i discendenti dei migranti egizi dovettero spostarsi nuovamente in risposta alle sempre più frequenti razzie dei Longobardi, trovando riparo sulle colline ai piedi del Monte Grappa, dove posero le fondamenta del villaggio di Romano.[1]

Nel 917, il nuovo capo della comunità, Arpo, discendente di Arpis, guidò l’edificazione del Castello di Romano, in testa ad uno dei colli occupati dai suoi correligionari (dove si trova oggi la “torre ezzelina”, che è in realtà il campanile della vecchia chiesa parrocchiale di Romano, ma le cui fondamenta sono in effetti quelle del maschio del castello). Nel 1035, un pronipote di Arpo, Ecelo (o Ezzelo), ottenne l’investitura feudale (come “Signore” di Onara e di Romano) dall’imperatore Corrado II il Salico, col quale aveva combattuto nella conquista della Svizzera occidentale, della Savoia, del Delfinato e della Provenza. Con Ezzelo ebbe inizio la dinastia degli Ezzelini.

Con Ezzelino III “il Tiranno” (1194 – 1259, r. dal 1223) i possedimenti degli Ezzelini raggiunsero la loro massima estensione, comprendendo approssimativamente le attuali province di Treviso, Belluno, Trento, Vicenza, Padova, Rovigo, Verona e Brescia.


In calce ad un rogito di Andrea Zolinato, notaio pubblico di autorità imperiale attivo a Bassano dal 1491 al 1543, è stata rinvenuta la seguente strofa in endecasillabi:

Ecelini castrum triaedri vertix Il castello di Ezzelino è il vertice di un triedro
est ut thesaurus eius inveniatur ciò significa trovare il suo tesoro
E verbis nova verba Dalle parole nuove parole
Villarum nomina recompone Ricomponi i nomi dei villaggi

Il Triedro è appunto un simbolo delle comunità gnostiche. Nel Triedro possiamo scorgere il “Cristo uomo”, il triangolo iscritto in basso, compreso nella Trinità divina formata da Padre, Cristo Dio e Spirito Santo (i tre triangoli maggiori). Lo stesso cognome “Zolinato” potrebbe mascherare una contrazione di “Ezzelinato”, ovvero “Piccolo Ezzelino”.[2]

Simbolo del Triedro; si noti come tutti gli angoli assumano valori corrispondenti a numeri sacri del ciclo astronomico di precessione. Cfr. G. De Santillana & H. Von Dechend, Il Mulino di Amleto, Adelphi 2003.

Ne dedurremo che Ezzelino III “il Tiranno”, prevenendo la propria morte, avesse criptato la localizzazione del suo immenso tesoro (che si diceva paragonabile alle ricchezze di un sultano orientale) proprio all’interno di un triedro.

Mantenendo le proporzioni del modello originale, è possibile adattare la scala del triedro alla geografia della Marca Trevigiana, ottenendo le seguenti corrispondenze:

Incrocio n.1: Cappella della Madonna del Buon Consiglio, in Valle Felicita (oggi Valle Santa Felicita, a Romano d’Ezzelino -VI-);
Incrocio n.2: Chiesa di San Sebastiano a Lugo (oggi Chiesa di San Pietro a Lugo di Vicenza, frazione Mare, da “Mare”, dèa della natura e della fertilità del popolo veneto, meglio nota come “Reitia”, in origine “Mareitia”);
Incrocio n.3: Villa Chiericati Milan a Sovella (oggi loc. Soella, nel territorio di Ancignano, frazione di Sandrigo -VI-);
Incrocio n.4: Villa Chiericati Cabianca Lambert a Longa (frazione di Schiavon -VI-, oggi Villa Nakamura, Fondazione Showa);
Incrocio n.5: Castellaro di Friola (mulino fortificato in Friola Vecchia, oggi Molino Rossetto nel territorio di Pozzoleone -VI-);
Incrocio n.6 (Vertice): Chiesa dei SS. Giacomo e Filippo a Pianicie (oggi Pianezze -VI-);

Applicando il consiglio della strofa suddetta, come anagramma degli incroci (Felicita, Lugo, Sovella, Longa, Friola, Pianice), otteniamo il seguente messaggio:

«Ecelino ga vesto un fillio a Galpia friollica», ovvero «Ezzelino ha avuto un figlio da Galpia abitante di Friola»

Si rivela così l’esistenza di una discendenza di Ezzelino concepita in tarda età con la giovane Galpia da Friola. Il tesoro indicato da Ezzelino deve allora intendersi come una sorta di certificato di nascita, un’eredità che qualcuno potrebbe oggi rivendicare? In tal caso, che ne sarebbe stato del tesoro materiale, misteriosamente scomparso ai tempi della “Crociata contro il Tiranno” indetta da Papa Innocenzo IV?

Fonte: Giordano Dellai, Il Tesoro di Ezzelino, AttilioFraccaro 2024


[1] L’insediamento scelse il proprio nome nel 917 in onore del Sacro Romano Imperatore, che all’epoca era Berengario d’Ivrea, merovingio da parte della nonna materna (Engeltrude di Tolosa), e per tale ascendenza ritenuto un simpatizzante della causa gnostica.

[2] Il suffisso “ato” in lingua veneta è impiegato nella formazione del diminutivo, esattamente come l’italiano “ino”.

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Assassin’s Creed

Assassin’s Creed

Tutti i Libri in Ordine di Lettura

Una serie singolare, sviluppata inizialmente come videogioco, che racconta l’eterna lotta tra la Confraternita degli Assassini e coloro che intendono istituire il Nuovo Ordine Mondiale. Nella serie, quest’ultimi sono astutamente identificati con i Templari, ma potrebbe trattarsi di un’allegoria per indicare famiglie come i Rothschild, i Rockefeller o i Warburg, che operano oggi proprio in funzione del succitato Nuovo Ordine Mondiale. Maggiori corrispondenze sono state evidenziate ne Le Cronache del Dominio.

Seguono i libri della serie secondo l’ordine più appropriato di lettura, diverso dall’ordine col quale sono stati scritti.

Filmato Introduttivo

01, Rinascimento, Firenze 1476

 

02, Fratellanza, Roma, 1503

03, La Crociata Segreta, Siria 1257

04, Revelations, Siria 1509

05, The Ming Storm, Cina XVI sec.

06, The Desert Threat, Cina XVI sec.

07, Odyssey, Sparta V sec. a.C.

08, Desert Oath, Egitto 70 a.C.

09, La Saga di Geirmund, Wessex IX sec.

10, La Spada del Cavallo Bianco, Wessex IX sec.

11, La Città d’Oro, Costantinopoli 867

12, Black Flag, Caraibi 1715

13, Forsaken, Londra 1735

14, Unity, Parigi 1789

15, The Magnus Conspiracy, Londra 1851

16, Underworld, Londra 1862

17, La Spada di Aizu, Giappone 1868

18, Last Descendants, Oggi

19, La Tomba dei Khan, Oggi

20, Il Destino degli Dei, Oggi

21, Heresy, Oggi e Francia del XV sec.

22, Il Romanzo del Film, Oggi e Spagna del XV sec.


In Traduzione dall’Estero


Mirage (Miraggio), Il Cairo 824

Les Enfants des Higlands (I Figli delle Highlands), Scozia 1296

Les Sorcièrie des Landes (Le Streghe delle Lande), Francia 1609

The Engine of History (Il Motore della Storia), Il Cairo 1869


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Meditazione Statica e Dinamica

Meditazione Statica e Meditazione Dinamica

Quanto alle tecniche di meditazione, possiamo distinguerle in due grandi categorie: le meditazioni statiche e le meditazioni dinamiche. Ambedue hanno in comune l’attenta osservazione interiore, ma mentre nelle prime si sta in una posizione seduta o comunque immobile, nelle seconde il corpo è in movimento.

Le meditazioni statiche sono quelle classiche praticate in Asia da millenni. Sono state concepite ed elaborate per popoli che passavano le loro giornate all’aria aperta, nei quali il lavoro era principalmente un’attività fisica, e vi era molto contatto corporeo tra le persone, dalla nascita fino alla morte: per persone, insomma, il cui principio di identità si fondava più su un senso corporeo ben radicato, che non sulla mente e sull’immagine di un io individuale.

Oggi viviamo nel modo opposto: molti lavorano seduti, fanno poco movimento, il contatto corporeo con gli altri viene limitato ai membri della famiglia, l’identità è assai più un’idea di sé stessi che non un senso del proprio corpo. La maggior parte delle persone in Occidente non percepisce molto attraverso i sensi fisici, ha un «corpo sordo» e lo tratta come un oggetto. Quando rimaniamo seduti in meditazione è difficile che il nostro corpo fisico ed energetico sia vitale, armonizzato e permeabile alle sensazioni. Al massimo, possiamo avvertire un male alla schiena. Per noi occidentali, quando cominciamo a meditare, sono dunque assai utili le meditazioni dinamiche, che ci insegnano a vivacizzare il corpo e a sfogare tutta l’energia compressa, per potere poi, con un corpo più permeabile energeticamente, addentrarci nel silenzio interiore.

Possiamo paragonare la meditazione all’atto di pulire lo specchio – lo specchio della pura coscienza. E dallo strato di polvere depositato sullo specchio dipenderà la scelta del migliore attrezzo per la pulizia.


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La Genesi del Necronomicon

La Genesi del Necronomicon

Necronomicon è il nome di un antico grimorio[1] che per sua stessa ammissione avrebbe ispirato le opere orrorifiche dello scrittore americano Howard Phillips Lovecraft (1890 – 1937, figlio e nipote di massoni[2]), salvo poi che egli stesso, nel 1933, rivelò in una biografia di avere inventato l’intero argomento.[3]

Prima di tale rivelazione, il Necronomicon sarebbe stato (a parole di Lovecraft) una compilazione in lingua araba di formule ed incantesimi che un certo “arabo pazzo” vissuto nel X secolo avrebbe tratto da papiri o tavolette riesumati tra le rovine di Ubar, presso l’odierna Shisr in Oman. Questi formulari, che nell’opera di Lovecraft vengono chiamati Manoscritti Pnakotici, risalirebbero all’antico regno di Magan (coincidente con gli attuali territori di Yemen e Oman, l’egizia Punt), ricordato dalle cronache sumere per l’esportazione in Mesopotamia (e alla foce dell’Indo) di rame, diorite e soprattutto incenso.

La stessa Ubar, chiamata “Ubar dalle Colonne Alte” nel Corano e “Irem dalle Mille Colonne” ne Le Mille e Una Notte, risalirebbe, secondo le prospezioni archeologiche, ad un’età precedente il 2.800 a.C.. Il suo abbandono, datato al 200 d.C., avvenne durante l’occupazione persiano-partica, quando i numerosi livelli sotterranei della città sarebbero collassati su sé stessi. Solo nel 1600 d.C. gli Arabi Hashemiti (che governavano la penisola pur riconoscendo la supremazia del Sultano di Istanbul) vi edificarono una nuova fortezza (circondata da otto corsi murari) a protezione del pozzo che a quanto pare garantirebbe l’approvvigionamento idrico ancora oggi. Il mito fa risalire invece la prima edificazione della città ai giganteschi Jinn, Signori del Fuoco guidati da Shaddad. Al tempo si sarebbe chiamata R’lyeh, dove «il morto Cthulu attende sognando».[4]

Per la biografia dell’“arabo pazzo”, che Lovecraft appellava simpaticamente Abdul Al-Hazred (contrazione di “all has read”, ovvero “[egli] ha letto tutto”) attingiamo dal lavoro di Roberto Volterri e Bruno Ferrante:

<Alla fine del X secolo, più esattamente nell’anno 965 d.C., nacque in Iraq, a Bassora, colui il quale divenne in seguito noto come lo scienziato pazzo del Cairo, ovvero Abu Alì al-Hasan ibn al-Haitham, dagli storici dell’Occidente denominato Al-Hazen. A soli 30 anni egli era totalmente padrone della matematica e della fisica, nonché della filosofia e di molte altre scienze proibite, tanto che il califfo egiziano Al-Hakim, stimandolo moltissimo, lo inviò al Cairo ad approfondire i suoi studi. In questo luogo, osservando le periodiche, rovinose inondazioni del Nilo, Al-Hazen pensò di risolvere il problema proponendo di costruire una diga nella gola di Assuan. Sì, proprio ad Assuan, dove nel 1971 – quasi otto secoli più tardi, però! – fu veramente inaugurata la nota gigantesca diga, alta 114 metri e lunga oltre tre chilometri e mezzo, in grado di dar origine ad un lago di 5.180 km2. Ma la tecnologia ha i suoi tempi lunghi e, nonostante l’idea di Al-Hazen fosse la più geniale, dopo aver esaminato a fondo il luogo e dopo aver discusso con i collaboratori assegnatigli da Al-Hakim gli innumerevoli problemi costruttivi, egli prese atto del fatto che era materialmente impossibile edificarla con gli scarsi strumenti a disposizione. Onestamente espose al califfo – ben noto per aver fatto giustiziare tutti quelli che avevano deluso le sue aspettative – le sue ragioni, aggiungendo però di non essere totalmente responsabile dell’insuccesso, poiché egli si riteneva pazzo. Poiché la legge islamica proteggeva i folli, ritenendoli toccati dalla mano di Dio, Al-Hazen venne imprigionato fino alla morte del poco magnanimo califfo, avvenuta nel 1021. Ma l’arabo pazzo Al-Hazen doveva pur sopravvivere e, per farlo, si dedicò alla traduzione delle opere di Euclide e di Tolomeo, continuando però le sue ricerche. Proibite o meno. Così, fu poi pubblicato il più che ponderoso trattato intitolato Opticae Thesaurus, in cui egli puntualizzò correttamente che la vista non dipende dalla fantomatica emanazione di raggi luminosi che partendo dall’occhio avrebbero raggiunto l’oggetto osservato, ma – proprio il contrario – dipende da radiazioni luminose (forse non proprio così descritte) che, colpendo le parti sensibili dell’occhio (la retina, i coni, i bastoncelli, ecc.) suscitano nel nervo ottico e poi nel cervello la percezione del mondo reale che ci circonda. Leonardo da Vinci e i suoi studi analoghi giunsero solo quattro secoli più tardi.[5]>

È ragionevole ascrivere la visita di Al-Hazen ad Ubar a prima della sua prigionia e il suo viaggio a Costantinopoli negli anni successivi. Qui avrebbe avuto modo di incontrare il monaco Michele Psello, letterato e politico alla corte bizantina, e di consegnargli una copia del Necronomicon. Sarebbe stato proprio Psello, suggerisce Pietro Pizzari[6], ad adottare questo titolo per la sua tradizione in greco (lett. “libro delle leggi che governano i morti”) di quello che in origine era l’Al Azif, termine onomatopeico impiegato nella lingua araba per indicare gli strani suoni notturni emessi da alcuni insetti e interpretati come “l’ululato dei Jinn”. Presumibilmente Al-Hazen vide negli Jinn la prosecuzione della “Stirpe di Cthulhu”, una specie aliena non completamente incarnata che avrebbe abitato la Terra decine (se non centinaia) di milioni di anni fa e i cui spiriti sarebbero stati evocati dai Parti (e prima di loro dai Babilonesi e dai Sumeri) proprio per mezzo dei Manoscritti Pnakotici.

Il passaggio di “qualcosa” dalle mani di Al-Hazen a quelle di Psello è solo il primo anello di una catena che in effetti conduce dall’“arabo pazzo” alle opere di Lovecraft. A meno che non emerga una copia originale del manoscritto, difficilmente potremmo verificare se questo “qualcosa” comprendesse il Necromonicon, ma vale comunque la pena di esaminarne l’intero percorso.

Nel 1453, durante un viaggio in Macedonia sulla via di Costantinopoli, uno scrittore italiano della Corte dei Medici, Leonardo da Pistoia, scoprì quattordici trattati originali appartenuti a Michele Psello, scritti in greco ed attribuiti ad Ermete Trismegisto, maestro di sapienza e figura leggendaria dell’Antico Egitto, guida della “Fratellanza Bianca”[7] tra il 1.333 e il 1.259 a.C.. Ritornato a Firenze, Leonardo consegnò i trattati a Cosimo de’ Medici, che incaricò subito Marsilio Ficino di tradurli dal greco al latino. Il lavoro fu completato nel 1463 e l’opera divenne universalmente nota come Corpus Hermeticum.

Benché il Corpus Hermeticum fosse destinato a diventare il testo fondamentale della futura massoneria speculativa, è altresì noto che Cosimo (come molti altri tra i Medici) appartenesse ad una fratellanza totalmente contrapposta ai fini massonici, la quale era sorta in seguito alla commistione degli Assassini di Masyaf (convocati in Italia a più riprese da Federico II di Svevia, dal 1227) con gli Eleusini arrivati a Firenze nel XIV secolo.[8] Non è pertanto impossibile che Cosimo avesse ritenuto prudente tenere nascosta la scoperta del Necronomicon, semmai gli fosse giunto dalle stesse mani che avevano portato a Firenze gli scritti ermetici.

A tal riguardo scrive ancora la coppia Volterri-Ferrante:

<Secondo una ricercatrice che si firma Laura Bestini, nel 1912, a Firenze, sarebbe stato rintracciato il frammento di un manoscritto bizantino (il Fragmentum Alchemicum Florentinum) conservato nella Biblioteca Riccardiana della città toscana.[9] Il frammento, di limitate dimensioni, avrebbe contenuto poche parole intellegibili e sarebbe stato presto dimenticato. Nel 1965 sarebbe stato fotografato per poi andare perduto nell’alluvione dell’anno seguente. Ciò che sarebbe apparso strano alla ricercatrice fiorentina, sarebbero alcune parole che farebbero riferimento al deserto dell’Arabia, a una località chiamata R’lhee, a qualcosa che non è morto e al passare di eoni. Non ci ricordano forse, queste parole, alcuni passi dei libri di Lovecraft e in particolare il famosissimo distico attribuito al misterioso arabo Al-Hazred? («Non è morto ciò che in eterno può attendere, e con il passare di strane ere anche la morte muore»[10].)[11]>

Il Fragmentum Alchemicum Florentinum, l’unica quasi-prova dell’esistenza del Necronomicon. Fonte: Hera 26, Febbraio 2002.

Da Firenze il Necronomicon sarebbe passato ai Medici della Serenissima, famiglia del patriziato veneziano strettamente imparentata con i Medici di Toscana. Qui sarebbe stato affidato all’umanista Giulio Camillo (detto “Delminio”, 1480 – 1544) e da lui trasmesso più tardi (e per vie traverse) alla Confraternita dei Flagellanti di Loreo, cittadina della provincia di Rovigo che era un tempo caposaldo militare ed economico della Repubblica di Venezia:

<Da quasi cinquecento anni, la domenica successiva alla Pentecoste, durante la solennità della SS. Trinità, a Loreo si celebra una strana cerimonia presso la cosiddetta Confraternita dei Flagellanti. Verso la mezzanotte ha inizio una curiosa cerimonia pubblica durante la quale avviene la vestizione dei nuovi adepti. «Fratelli, che dimandate?», chiede il celebrante. «La misericordia di Dio e la pace di questa compagnia», rispondono in coro i nuovi adepti. Fin qui nulla di strano. Però, più tardi, verso le tre del mattino, il celebrante pronuncia altre strane parole: «Avvertiti tutti i fratelli d’un perfetto silenzio, chiuse tutte le porte e conoscendo il priore essere i tutti fratelli al loro posto e bene preparati». Ora i fradei – ovvero i “fratelli” – escono in processione, nei loro sai rossi, incappucciati, e si avviano alla chiesa del Pilastro per una veglia… cimiteriale. Ancora oggi si mormorano strane cose su tali cerimonie “segrete”. C’è chi sostiene che, addirittura, si debba subire un’ispezione fisica per accertare il sesso dei postulanti, poiché le donne non sono ammesse alla Confraternita. Altri sostengono che al momento della morte di uno dei fradei, sotto il suo capo debba essere posto un mattone e il suo nome debba essere immediatamente cancellato dall’elenco della Confraternita, altrimenti il suo spirito vagherebbe in eterno tra quelle contrade. Chi la sa più lunga sostiene che, durante la cerimonia segreta, la presenza di un estraneo, anche se non visibile, bloccherebbe ogni azione del celebrante. Quasi un’azione magica. Insomma, le dicerie popolari avrebbero creato un alone “esoterico” intorno a una cerimonia che di “esoterico”, di “magico” poco sembra avere. Gli attuali duemila “adepti” – i fradei – non gradiscono molto i vari “si dice”, ma ricordano con orgoglio le origini della loro Confraternita, risalente ai primi anni del 1600. All’epoca, ai confratelli veniva comunque imposta la totale obbedienza al priore, il dovere della penitenza, l’osservanza di una ineccepibile condotta morale, le preghiere, e così via, poiché «procurate, o fratelli, di confessarvi e comunicarvi spesso, e talvolta di far la disciplina in casa divotamente, e con gli altri fratelli nell’oratorio, perché non basta, fratelli, solamente di vestirsi di questo sacco», esortava infatti il priore. Ancor oggi, comunque, un quasi evanescente velo di mistero aleggia da quelle parti poiché la regola della Confraternita recita: «a quelli che vi dimandano direte che vengano ancor essi, se vogliono sapere, che vedranno e sapranno». Ovvero «Non dire mai tutto quello che sai!».[12]>

Quasi certamente la Confraternita non faceva alcun utilizzo dei contenuti del Necronomicon, il quale veniva invece custodito gelosamente affinché non cadesse nelle mani sbagliate. Benché sia probabilmente un falso la notizia secondo cui il Necronomicon sarebbe apparso nell’Indice del Sant’Uffizio pubblicato nel 1559[13], se non fosse stato prioritario mascherarne l’esistenza vi sarebbe stato certamente incluso di diritto.

Curiosamente però il libro sembra essere stato consegnato nelle mani apparentemente meno adatte che si potessero incontrare: quelle del mago inglese Aleister Crowley. Quest’ultimo sarebbe passato furtivamente per Loreo tra il 1919 e il 1920, ovvero tra il suo soggiorno in Villa De Vecchi (Casa Rossa) a Cortenova (LC) e il suo insediamento a Villa Santa Barbara di Cefalù (PA), da cui Mussolini lo espulse a fine aprile del 1923.

Volterri e Ferrante spiegano come il libro sarebbe infine passato da Crowley a Lovecraft:

<Nel 1918 Aleister Crowley è a New York per conferenze sulla magia. Per dare risalto alla sua reputazione letteraria pubblica qualche articolo su The International e su Vanity Fair. Il “caso” vuole che a New York, nello stesso periodo, ci fosse anche Sonia Greene (1883 – 1972), giovane e piacente immigrata ebrea con irrefrenabile desiderio di sfondare nel mondo della letteratura. Il “caso”, ancora, vuole che ella frequenti un circolo letterario chiamato Walkers’s Sunrise Club dove Crowley è stato invitato per dare sfoggio della sua “vena poetica”. In questa circostanza Crowley inizia una “affettuosa amicizia” con l’intraprendente Sonia, la quale apprende dal mago l’esistenza di realtà separate e di strani rituali per entrare in contatto con entità dimoranti in altre dimensioni. […] Il 12 Marzo 1921, a Boston, quando Lovecraft ha trentuno anni, ha luogo il fatale incontro con Sonia Greene – di pochi anni più anziana e sicuramente più matura di lui – e la nascita di una relazione culturale, e in seguito, sentimentale, sfociata nel 1924 in un matrimonio che ha, però, breve vita. Ciò che a noi più importa è che solo pochi mesi dopo averla incontrata e aver con lei creato un rapporto, diciamo così, di natura intellettuale, nell’Ottobre del 1921 Lovecraft menziona per la prima volta il Necronomicon nel racconto The Hound.[14]>

Come esposto in Appunti di Storia Proibita[15], Crowley fu il tramite che dall’impero bancario Rothschild nel 1934 incaricò l’esoterista italiano Giuseppe Cambareri della fondazione della P2, vertice delle Logge Massoniche Internazionali o Ur-Logge.[16] Sono noti inoltre i suoi interessi “luciferini”. Dovremmo dunque pensare che dissimulasse, come un Severus Piton ante litteram? Fatto sta che Crowley non rivelò mai nei suoi scritti o nelle sue conferenze di aver posseduto il Necronomicon.

Tra maggio e giugno 1926 Lovecraft avrebbe quindi visitato il Polesine[17] (compresa Loreo) o almeno è questo ciò che traspare da una specie di “diario”: si tratta di una quarantina di pagine scritte in inchiostro blu su carta comune, corredate di immagini e contenute in una rovinata busta giallastra intestata all’amico Alfred Maurice Galpin (1901 – 1983) residente all’epoca a Montecatini Terme, in Toscana. Insieme alle pagine vi era una cartolina di Venezia in cui si vedevano il Caffè Florian e le Procuratie Nuove, il tutto ritrovato dall’autore Roberto Leggio all’interno di una copia della Voluttà della Vita di Emile Zola, in una bancarella di libri usati a Montecatini. Sull’autenticità del diario permangono comunque forti dubbi.


[1] Libro di incantesimi.

[2] Il padre di H. P. (Winfield Scott Lovecraft) e il nonno materno (Whipple Van Buren Phillips) erano iscritti alla Loggia “Tempio del Sepolcro Mistico” di Providence, nel Rhode Island.

[3] H. P. Lovecraft, Autobiografia: Qualche Notizia su una Non-Entità, 1933.

[4] H. P. Lovecraft, Il Richiamo di Cthulhu, 1928.

[5] R. Volterri e B. Ferrante, I Libri dell’Abisso, Eremon 2014, pp. 62-63.

[6] P. Pizzarri (esoterista), Necronomicon, Atanor 1993.

[7] Fratellanza istituita dal faraone Tutmose III sulle ceneri dei precedenti Ordini dei Mesniu e degli Djedi. Incentrata sul tempio di Hator a Serabit El Khadim (monte Horeb, Sinai), i suoi emissari contribuirono alla costituzione del gruppo dei Terapeuti ad Alessandria e degli Esseni a Qumran.

[8] Cfr. D. Marin, Cronache del Dominio, SoleBlu 2024, p. 164.

[9] Scoperta riportata dal quotidiano La Nazione il 12 maggio 1912.

[10] H. P. Lovecraft, La Città Senza Nome, 1921.

[11] R. Volterri e B. Ferrante, I Libri dell’Abisso, Eremon 2014, pp. 59-60.

[12] R. Volterri e B. Ferrante, I Libri dell’Abisso, Eremon 2014, pp. 40-41.

[13] Notizia riportata in Necronomicon – Il Libro Proibito di Howard Phillips Lovecraft, Fanucci 1994.

[14] R. Volterri e B. Ferrante, I Libri dell’Abisso, Eremon 2014, pp. 53-54.

[15] D. Marin, Appunti di Storia Proibita, SoleBlu 2022, #1.

[16] Come al solito invitiamo a non confondere la P^2 (P-Quadro) con la P2 (P-Due), loggia nazionale di più celebre (quanto infausta) memoria.

[17] Dal punto di vista della geografia antropica, il Polesine si identifica con la provincia di Rovigo; dal punto di vista della geografia fisica viene definito invece “Polesine” il territorio situato tra il basso corso dei fiumi Adige e Po fino al Mare Adriatico, il cui confine occidentale, indefinito, lo separa dalle Valli Grandi Veronesi.

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Un Chiarimento sulla Palestina

I social diffondono da qualche tempo l’affermazione secondo cui prima del ’47 non esisteva uno Stato Palestinese. Ecco, pur essendo corretta da un punto di vista formale, tale affermazione sottintende una menzogna divulgata a fini politici.

Prima del ’47 la Palestina era protettorato britannico, ma è vero che divenne tale in seguito agli accordi di pace della I guerra mondiale, per cui quel territorio veniva ceduto dall’Impero Ottomano. (In pratica era già terra britannica dal ’16 in seguito agli Accordi di Sykes-Picot.) L’Impero Ottomano (turco ed islamico) era la prosecuzione dell’Impero Selgiuchide (turco ed islamico) che aveva assorbito il precedente Impero Arabo (arabo ed islamico). Perciò ok, la Palestina non era uno Stato ma una Regione. Quindi? La Palestina è abitata dagli arabi dal 637 d.C., i quali sono rimasti l’etnia dominante anche dopo la conquista turca del 1071, e anche durante la permanenza non certo pacifica dei crociati (dal 1099 al 1291). Se affidassimo la Lombardia alla Francia, e solo a quel punto venisse occupata dall’Austria, sarebbe meno grave del caso in cui venisse occupata dall’Austria direttamente?

Purtroppo già nel ’17 con la Dichiarazione Balfour i Britannici promettevano quella terra al movimento sionista (guidato dal banchiere Lionel Walter Rothschild). Molti immigrati europei di fede ebraica iniziarono ad ottenere terreni in Palestina che venivano confiscati ai legittimi proprietari, con conseguente impoverimento e disoccupazione del popolo palestinese, la cui esasperazione si produsse nel massacro di Hebron del 23 agosto 1929. (Si noti che ai non-Ebrei era spesso vietato anche solo lavorare nei terreni confiscati.)

Mi dispiace che un certo razzismo di matrice sionista (in mancanza di argomenti) venga giustificato per mezzo della semantica.


Approfondisci la genesi della classe governante israeliana >>>


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A Proprio Agio con l’Insicurezza

A Proprio Agio Con L’Insicurezza

da Jack Kornfield (psichiatra), Il Cuore Saggio, Corbaccio 2021, pp. 411-414


La sicurezza è sostanzialmente una superstizione. In natura non esiste, i bambini non ne fanno esperienza totale. Alla lunga evitare i pericoli non è più sicuro di quanto non lo sia esporsi direttamente a loro. La vita è un’avventura da osare, oppure niente. [Helen Keller]


Un giorno Ajahn Chan sollevò fra le mani una bellissima tazza cinese: «Per me questa tazza è già rotta. Dato che conosco il suo destino, posso godermela pienamente qui e ora. E, quando è andata, è andata». Quando comprendiamo la verità dell’incertezza e ci rilassiamo, diventiamo liberi.

La tazza rotta ci aiuta a vedere al di là dell’illusione di avere il controllo delle cose. Quando ci dedichiamo ad allevare un bambino, a metter su un’impresa, a creare un’opera d’arte, a raddrizzare un’ingiustizia, ci esponiamo a una certa misura di fallimento come di riuscita. È un insegnamento feroce, questo. Emilee è un’ausiliaria sanitaria; l’ospedale dove lavorava in Kosovo è bruciato fino alle fondamenta, eppure lei ha ricominciato. Sa che il suo lavoro consiste nell’aiutare le persone ad attraversare la riuscita come il fallimento. Rosa ha perso il suo più promettente studente di matematica ucciso in una sparatoria fra bande; ne ha avuto il cuore spezzato ma non ha mai rimpianto di essere stata sua insegnante e ora insegna a molti altri, in sua memoria.

Possiamo perdere la nostra migliore opera di ceramica nella cottura; la scuola pilota che abbiamo avviato con tanta cura può chiudere; l’impresa che abbiamo avviato può colare a picco; i nostri figli possono sviluppare problemi che vanno al di là del nostro controllo. Se ci concentriamo solo sui risultati saremo devastati. Se invece sappiamo che la tazza è già rotta, possiamo dedicare al processo in corso il nostro meglio, possiamo creare ciò che sta a noi creare e poi fidarci del processo ben più vasto della vita stessa. Possiamo pianificare, prenderci cura, rispondere ai bisogni, accudire – ma non possiamo controllare. Facciamo invece un respiro e apriamoci a ciò che accade là dove ci troviamo. Passare dalla presa stretta al lasciar andare è un mutamento profondo. Come dice Shunryu Suzuki, «quando comprendiamo la verità dell’impermanenza e vi troviamo la nostra compostezza, allora ci troviamo nel nirvana».

Quando qualcuno interrogava Ajahn Chan sull’illuminazione o su quello che accade al momento della morte, o gli chiedeva se la meditazione l’avrebbe guarito dalla malattia di cui soffriva o se gli insegnamenti buddhisti possano essere praticati ugualmente bene anche dagli occidentali, lui sorrideva e diceva: «Non si sa bene, vero?» Chögyam Trungpa chiamò questa incertezza «assenza di terreno di base». Con la saggezza dell’incertezza, Ajahn Chan poteva semplicemente rilassarsi. Intorno a lui si respirava un’enorme sensazione di agio; lui non «tratteneva il respiro» né cercava di manipolare gli avvenimenti, ma rispondeva di volta in volta alla situazione del momento. Una monaca anziana occidentale abbandonò il monastero per «rinascere» come missionaria cristiana, e poi tornò al monastero a cercare di convertire i suoi antichi amici; molti si indignarono: «Ma come può fare una cosa simile?!» Confusi, chiesero l’opinione di Ajahn Chan; lui rispose con una risata: «Chissà, magari ha ragione». A quelle parole si rilassarono tutti. Eppure Ajahn Chan, nel mezzo dell’incertezza, era anche capace di agire: sapeva pianificare la costruzione di un grande tempio o fare da supervisore alla rete degli oltre cento monasteri fondati dai suoi monaci. Quando disciplinava i monaci che si erano comportati male sapeva essere deciso, esigente e severo. Intorno a ogni sua azione, comunque, c’era un senso di spazio; sembrava che un attimo avrebbe potuto voltarsi indietro, sorriderti – magari con una strizzatina d’occhio – e dirti: «Non si sa bene, vero?» Era una dimostrazione vivente del segreto della vita che descrive la Bhagavad Gita: «agire bene senza attaccamento per i frutti dell’azione».

 Si sviluppa la stessa fiducia espressa da Ajahn Chan ogni volta che la coscienza dimora in pace nell’eterno presente. «Da dove sto seduto», diceva lui, «non c’è nessuno che vada e nessuno che venga. Quando dimori in pace nella via mediana non c’è nessuno che sia forte o debole, giovane o anziano, nessuno che nasca o che muoia. Questo è l’incondizionato. Il cuore è libero». Gli antichi maestri zen la chiamano «liberazione della mente fiduciosa». Come si raggiunge questa saggezza? Come spiegano i testi zen, «Vivere nella mente fiduciosa significa non nutrire alcuna ansia per l’imperfezione. Il mondo è imperfetto. Invece di combattere per renderlo perfetto ci rilassiamo e dimoriamo in pace nell’incertezza. Allora possiamo agire con compassione e dare il meglio di noi, senza attaccamento per il risultato; allora possiamo entrare in ogni circostanza senza paura e con fiducia».

Quando Chas cominciò la pratica buddhista, la ditta di commercio telematico per cui lavorava era in difficoltà, il suo matrimonio gli sembrava spento, e lui pativa ancora le conseguenze di essere cresciuto accanto al padre sempre depresso. Si era rivolto alla pratica meditativa affinché l’aiutasse di fronte all’ansia per il futuro, all’insicurezza del suo matrimonio, alle tante volte in cui si sentiva collegato da sé stesso.

Chas aveva anche un senso del mondo profondamente mistico. Uno dei momenti più importanti della sua vita adulta fu un sogno su Katie, la figlia più piccola. A quattro anni Katie era stata ricoverata in ospedale per una meningite virale ed era andata in coma. Chas e sua moglie passavano la giornata accanto a lei; i dottori non erano certi delle sue possibilità di recupero. Dopo cinque settimane tutte uguali di infinita preoccupazione, Chas sognò la figlia che gli diceva: «Non preoccuparti, papà, va tutto bene». La mattina dopo, entrando nella stanza di Katie, la vide aprire gli occhi e sorridergli. Ora Katie è un’adolescente sana.

Chas aveva intravisto una verità: dietro a tutti i nostri piani c’è una grazia. Imparare a meditare risvegliò in lui questa fiducia; la pratica di consapevolezza lo sollevò dallo stress e gli fece cominciare a sentirsi il corpo e i sensi più aperti. In una sessione di meditazione raccontò di aver percepito il proprio corpo come un’alga laminaria, lunga e flessuosa, che fluttuava al di sotto della superficie ondosa. La sensazione di essere bloccato e pieno di ansia si era trasformata in momenti di interesse, curiosità e apprezzamento. Chas divenne meno preoccupato, più presente – più «succoso», si definiva lui. «Lasciar andare le mie paure è come togliermi un soprabito di ‘io’. Quando mi nascono pensieri e problemi che non riesco a risolvere, non mi si incollano addosso: dimoro tranquillo nella mente fiduciosa come un’alga nell’oceano». Ogni tanto Chas dice che se ne dimentica e allora torna a essere insicuro. La mente che si preoccupa prende il sopravvento: deve portare avanti il suo matrimonio? Deve continuare a lavorare in quel posto così incerto? Poi ricorda il sogno di sua figlia, allora si rilassa e dà fiducia al non sapere. «Per essere onesti, tutti i matrimoni e tutti i posti di lavoro sono insicuri!» dice.

Otto anni dopo, Chas è ancora sposato e lavora ancora in una ditta telematica, ora florida. La meditazione gli ha insegnato una fiducia che non è separata dall’insicurezza e dei paradossi della vita stessa.

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Lo Gnosticismo di Gesù di Nazareth

Benché vi sia una chiara derivazione dello Hieron du Val d’Or[1] dagli Elcasaiti (o Desposyni), ovvero dai familiari di Gesù di Nazareth, anche un’analisi superficiale della vita e della predicazione dello stesso è sufficiente a giustificare l’idea di un’infiltrazione, ad un certo punto, di elementi spuri. (Quanto alla sequenza di trasmissione succitata, annotiamo Elcasaiti > RosaCroce > Compagnia del S.S. > Aa > Hieron, con lo Hieron che nel 1934 “passa di mano”, viene snaturato e diventa P^2, tutt’ora attiva ed organizzata in Ur-Logge di respiro internazionale.[2] Dettagli in D. Marin, Appunti di Storia Proibita, #1.)

Il dualismo dello Hieron era quello tipico dei Manichei, e benché Mani (vero nome Shuraik, 216-277 d.C.) fosse in origine elcasaita, egli fu certamente “deviato” dallo Zoroastrismo persiano. Se il dualismo di Mani supponeva un dio (buono) dello spirito e un dio (malvagio) della materia, uno contrapposto all’altro – al punto che l’uomo pio disprezzerebbe il proprio corpo ed eviterebbe quanto più possibile di riprodursi –, di tutt’altra natura doveva essere il dualismo degli Elcasaiti. Diversi episodi della storia evangelica esprimono infatti l’apprezzamento di Gesù per tutto quanto desse gioia all’essere umano, non per ultimi il cibo e il buon vino.

Il dualismo di Gesù era probabilmente più vicino alla concezione platonica di “psiche” e “daimon”. Platone, che come Orfeo e Pitagora aveva preconizzato l’avvento del Cristo (cfr. D. Marin, Appunti di Storia Proibita, #5), suggerisce l’idea che, prima di venire al mondo, ciascuno di noi abbia la possibilità di scegliere una “grande imago”, un disegno, che dovrebbe poi realizzare nel corso della vita.

«Nel momento in cui entriamo nella matrice, nell’utero materno, noi però dimentichiamo la nostra scelta ed è compito del “daimon” che, per tramite delle Moire, si unisce a noi prima della nostra nascita, di ricordarci la nostra grande immagine, il disegno della nostra vita, il perché siamo giunti sulla Terra. Egli è dunque il custode del nostro destino, e ci sprona ad esprimere i nostri talenti e le nostre virtù per raggiungere il vero Bene, che è Bellezza e Verità. […]

«Il “daimon” è il depositario delle nostre inclinazioni e conosce gli strumenti che ci servono per sfruttarle. Esso fa sentire la sua voce fin da subito, persino nel modo in cui i nostri genitori ci hanno concepito, nel modo in cui siamo venuti al mondo, nei giochi della nostra infanzia, nei sogni onirici e nei nostri desideri e passioni. Perciò dobbiamo prestare orecchio al linguaggio in cui si esprime, cercando di evocare ricordi, essere consapevoli anche dei desideri più reconditi, il che non significa tentare di realizzarli a tutti i costi, ma riconoscerli e sapere che sono dentro di noi.

«Per intendere la voce del “daimon” dobbiamo fare attenzione ai segni interiori ed esteriori, i secondi riflesso dei primi, senza giudicare, analizzare, riflettere. La buona riuscita è strettamente legata all’assenza di paura: più c’è ansia e senso di colpa, più si ha bisogno di giudicare, analizzare gli avvenimenti nel tentativo di misurarli, prevederli, controllarli.

Lasciarsi andare è il modo migliore per intuire il linguaggio del “daimon”. Il nostro “spirito guida” ci chiede una prova di fede e, se ci affidiamo, ci conduce impeccabilmente e infallibilmente verso la realizzazione della nostra missione, a volte persino senza sforzo, trasportandoci oltre ogni ostacolo.

Attraverso le piccole e grandi cose che ci accadono – un meraviglioso tramonto, un innamoramento, ma anche una malattia, un tradimento, il volo di un uccello che attraversa il nostro spazio visivo – possiamo sentire la sua voce». (Cfr. S. C. Williams, Daimon, Piemme 2022, pp. 8-9.)

Presumibilmente il dualismo degli Elcasaiti non riguardava la distinzione tra spirito e materia (la quale, tra l’altro, sulla base della fisica quantistica sarebbe un prodotto unicamente “percettivo” dello spirito), ma indicava la separazione alla nascita tra il nostro “daimon” e la nostra “psiche”, la cui riunificazione può tuttavia ottenersi attraverso l’assimilazione della gnosi, ovvero la capacità di riconoscere segni esteriori e sensazioni interiori in armonia con il nostro progetto prenatale.

A questa gnosi si riferiva presumibilmente lo stesso Gesù (in vari passi dei vangeli sinottici) laddove accennava ad una conoscenza superiore riservata al suo cerchio più ristretto, mentre per gli altri auditori si sarebbe espresso in parabole.

Chi Sono i Leader di Israele

Agli albori dell’età moderna, l’impatto con Roma e la successiva predicazione del Nazareno provocarono una netta spaccatura nell’élite sacerdotale di Israele. In particolare, dell’insegnamento di Gesù faceva discutere il tema dell’uguaglianza delle razze: prima di lui la parola “uomo” od “umanità” dei testi biblici era intesa in riferimento esclusivo agli Ebrei, mentre per indicare gli homo sapiens delle altre etnie era in uso il termine “goyim”, tradotto spesso con “gentili”, ma che intendeva qualcosa di semi-umano o comunque più vicino all’animale. Pertanto non c’era contraddizione tra il 5° comandamento “non uccidere altri uomini” e l’ordine di Jahve di sterminare i Palestinesi dell’epoca mosaica (i Cananei) per occuparne la terra.

La spaccatura si formalizzò in due passaggi: gli accordi tra (San) Paolo e Seneca (intorno al 60 d.C.), e quelli tra Giuseppe Flavio e Vespasiano (nel 70 d.C.). Con questi patti, coloro tra i sacerdoti che vi aderivano si impegnavano a porre la loro scienza al servizio di Roma, sfruttando in particolare l’insegnamento di Gesù (adattandolo alla ragion di Stato ed al gusto pagano) per la costituzione di un nuovo culto (il Cristianesimo) che servisse all’accettazione da parte delle masse di una classe governante il cui dominio doveva essere sopportato con gioia in virtù di una ricompensa nell’aldilà. Penetrati nella nobiltà romana (adottati dalla gens flavia e dalla gens anicia), questi sacerdoti arrivarono a far eleggere uno di loro (Flavio Costantino, nel 306 d.C.) al soglio imperiale, e attraverso di lui ad ottenere il riconoscimento ufficiale della nuova religione (Editto di Milano, 313 d.C.). Come nobiltà nera gli “ebrei del patto” divennero inoltre gli elettori del papa. Per quasi 2.000 anni gli “Ebrei del Patto” mascherarono le proprie origini entro la nobiltà e la Chiesa cristiane, spostando più tardi il proprio centro da Roma ad Aquisgrana, dove le loro famiglie ottennero nuovo prestigio con la nomina imperiale di Carlo Magno Anicio Flavio (discendente di Costantino, nell’800 d.C.).

Chi invece non aderì ai patti, lasciò Gerusalemme per Babilonia (poi Baghdad), in cui dai tempi dell’esilio (VI sec. a.C.) sopravviveva una prolifica comunità ebraica al sicuro dalle ingerenze di Roma. Fecero eccezione i famigliari dello stesso Gesù (gli Elcasaiti o Desposyni), che dopo l’omicidio di Giacomo (parrebbe per ordine di Paolo[3]) si spostarono prima ad Alessandria e da qui in Calabria e nella zona di Lucca. Assumendo la sigla di “RosaCroce”, nel XII secolo trovarono un nuovo centro in Renania. Sebbene in alcuni testi gli Elcasaiti si definissero “cristiani”, essi intendevano il cristianesimo come una nuova mentalità da adottare all’interno dell’ebraismo, in cui la morte e resurrezione del loro profeta era da intendersi allegoricamente, mentre l’idea di un “popolo prediletto” veniva sostituita da quella di “creatura prediletta”, concependo l’intera umanità sullo stesso identico piano.

Il gruppo di Babilonia si spostò invece nel 768 d.C. in Settimania (oggi Linguadoca, Francia), dove Pipino il Breve concesse loro un principato semi-autonomo a patto che si impegnassero a far da cuscinetto contro gli Arabi di Spagna. Il primo principe di Settimania fu Teodorico Makir, figlio del rabbino di Baghdad Yehuda Zakkai, al quale Pipino concesse in sposa la sorella Aude.

Negli anni gli “Ebrei del Patto” non risparmiarono angherie contro i propri consanguinei, compresi tutti coloro che non erano a conoscenza del patto e che – nel legittimo desiderio di appartenere ad una comunità – non avevano altra scelta se non rivolgersi al gruppo di Babilonia, l’unico a mostrarsi apertamente ebraico. A questi nel tempo si sarebbero aggiunti gli Ebrei divenuti tali per conversione, la maggior parte di origine kazara.

Alcuni indizi suggeriscono perfino un coinvolgimento degli E.d.P. nell’ascesa del nazismo e nell’organizzazione dei campi di sterminio. Ma anche limitandoci alle età precedenti, non possiamo scordare i vari pogrom, gli esili e le ghettizzazioni che si sono protratti dal Medioevo alla 2a Guerra Mondiale.

Solo dopo il nazismo, gli “Ebrei del Patto” sono tornati a dichiararsi “ebrei”, emergendo con certi cognomi che conosciamo bene e che si collocano (insieme ad altri) ai vertici del sistema bancario mondiale. Funzionale allo scopo è stata l’applicazione di un’accurata politica matrimoniale con i membri di una “quinta colonna” per mezzo della quale gli E.d.P. avevano mantenuto degli infiltrati a Babilonia.

Anche escludendo una loro responsabilità diretta, è evidente come gli “Ebrei del Patto” abbiano sfruttato lo stato di spirito prodotto dall’olocausto per ottenere senza sforzo la ricostituzione dello Stato d’Israele, del quale hanno assunto la guida politica, adottando per la seconda volta un programma di genocidio verso i Palestinesi. Il popolo praticamente non se ne è accorto, e ancora oggi non ha la minima idea che i suoi leader rappresentino quella stessa nobiltà europea che gli ha causato secoli di sofferenza.[4]

La Stella di Davide

Ai tempi dell’antico Israele, la Stella di Davide Non era un simbolo del popolo ebraico. Divenne nota al “grande pubblico” solo intorno al 1800, quando il banchiere Mayer Amschel Rothschild la fece dipingere sulla facciata della propria casa a Francoforte e la adottò come simbolo della propria famiglia. Prima era limitata a circoscritti ambiti esoterici, e per pratiche non proprio rispettabili. Dopo la seconda guerra mondiale, considerato l’impegno dei Rothschild alla causa sionista, evolse nel simbolo dell’intera nazione ebraica.

Curiosamente in alcuni passi biblici (come Amos 5, 26) lo stesso Jahweh proibisce l’uso della Stella a sei punte. Il motivo è che quel tempo la Stella a sei punte era simbolo del dio fenicio Moloch (che tribù differenti chiamavano Refan o Chiiòn), tristemente famoso per l’usanza di sacrificargli i primogeniti nella speranza che diventassero gli “angeli custodi” della famiglia. Secondo il Testamento di Salomone, lo stesso re di Israele in un periodo di debolezza spirituale avrebbe impresso la Stella sul proprio anello per controllare il demone Belzebù di modo che questi e le sue schiere edificassero il Tempio di Gerusalemme. A parte il fatto che Salomone era figlio di Davide, non vi è alcun legame tra la stella e il sovrano a cui viene nominalmente accostata.

Aggiungiamo a quanto esposto il tradizionale incontro annuale al Bohemian Groove che coinvolge presidenti, banchieri e affaristi (perlopiù dichiaratamente sionisti) nei giorni centrali di agosto, il cui “spettacolo” principale è una bizzarra cerimonia propiziatoria ai piedi della statua di Moloch. E come non ricordare la statua di Moloch esposta (tra l’autunno del 2019 e la primavera del 2020) all’ingresso del Parco Archeologico del Colosseo?

Abbiamo abbastanza indizi a sostegno della ricostruzione precedente a proposito degli “Ebrei del Patto”, i quali non avrebbero molto da spartire con la popolazione sulla quale oggi governano.[5]

Non abbiamo idea del perché gli “Ebrei del Patto” abbiano ripescato il mito di Moloch, diffuso tra i Fenici ma le cui origini si devono probabilmente ricondurre ai Cananei. Certamente però lo portarono con sé dentro il Cristianesimo (il Cristianesimo, si badi, non l’insegnamento – reale – di Gesù). Chi è infatti il dio dei Cristiani se non l’apoteosi di Moloch, che sacrifica il proprio primogenito a sé stesso affinché diventi il custode della famiglia umana?

Morte e Resurrezione

Con riferimento ai miei articoli precedenti (in particolare al #5), riprendiamo l’ipotesi motivata secondo cui l’Amore, per manifestarsi, necessiterebbe di un Universo fuori-equilibrio (in altre parole: la cui entropia sia lontana dal massimo, ovvero in cui la sofferenza non sia nulla). Ciò vuol dire che l’Amore dovrebbe “scendere” nella materia.

A tal fine la Coscienza Divina si “incarna”, ma così facendo perde contatto con la sua “memoria immateriale”, scordando tra l’altro la sua natura e la ragione della sua “discesa”. Quest’ultima viene tuttavia trasmessa nell’Universo Materiale dal “daimon” di ciascuno, ma a tal fine l’individuo deve “morire”, ovvero incontrare la propria “ombra”, la cui conoscenza e accettazione lo pone in sintonia con la trasmissione del “daimon”. Pur non potendo – neppure a quel punto – recuperare i propri ricordi, egli diviene almeno sensibile al proprio flusso esistenziale (il piano che egli stesso ha concepito per la propria esistenza materiale prima di incarnarsi). L’individuo comprende in particolare se una determinata azione o un determinato progetto appartengono al flusso sulla base delle proprie sensazioni interiori e dei segni rivelatori (che egli impara a discernere dal caso). A quel punto può sostenere di avere risvegliato lo spirito nella materia, ovvero di essere, in un certo senso, risorto.[6]

L’interpretazione letterale dei vangeli sinottici sosterrebbe che Dio si sarebbe incarnato nel Nazareno, e che morendo per poi risorgere avrebbe liberato l’Uomo dalla colpa del peccato originale, salvando di conseguenza la sua anima. Tuttavia, in una concezione di Dio quale entità onnipotente esterna all’Uomo, se il Creatore avesse voluto semplicemente scagionare l’Uomo da un Reato, avrebbe disposto certamente di un sistema più rapido ed efficacie, tanto più che la Storia non rileva alcuna soluzione di continuità tra il prima e il dopo gli anni fatali.

È più logico pensare che la descrizione della morte e della resurrezione di Gesù sia stata soltanto l’ultima delle parabole trasmesse dagli evangelisti. Ogni uomo è un’espressione della Coscienza Divina Incarnata. La Croce è universalmente il simbolo dei 4 Elementi, o in altre parole della dimensione materiale. Gesù si presenta quindi come rappresentante della Coscienza Divina che è discesa nella materia (si è posta sulla Croce), e morendo (incontrando la sua “ombra”), ha potuto risorgere, ovvero ha potuto mettersi in contatto con il proprio “daimon” e afferrare le redini della propria vita. In questo modo, Gesù non avrebbe salvato l’Uomo, ma avrebbe consegnato ad ogni uomo gli strumenti con cui salvarsi da solo.[7]

Questo grande maestro, il cui insegnamento così interpretato non si discosta molto da altri precedenti (ad esempio il buddismo), sarebbe pertanto vissuto oltre il suo magistero in Palestina. Certo gli accordi tra l’élite sacerdotale israeliana e il gotha romano gli imponevano di andare altrove, sicché dovremmo considerare seriamente la tradizione che vede la continuazione del magistero di Gesù prima in Kurdistan[8], poi in India ed infine in Giappone, come registrato nel Rapporto Notovitch[9] e nei Documenti Takeuci[10].

{Postilla, Il Piano di Paolo}

Se la ricostruzione di Holger Kersten (La Vita di Gesù in India) è buona (e io ritengo che in linea di massima lo sia), ne conseguono altre possibilità non espresse dall’autore:

Un paio d’anni dopo la crocifissione, Paolo è sulle tracce di Gesù di cui si mormora possa trovarsi a Damasco sotto la protezione della locale comunità essena. Una volta sul posto, Paolo finge di smarrire il proprio impeto persecutorio, e dopo un anno di valutazione riesce a farsi ammettere alla comunità.

Nonostante le rimostranze del discepolo Anania, Gesù si convince infine del rabbonimento di Paolo e decide di incontrarlo per affidargli la diffusione del suo messaggio ai gentili.

Paolo compie la sua prima missione in Arabia, e a tre anni dal suo incontro con Gesù si reca a Gerusalemme per presentarsi a Simon Pietro e Giacomo, quest’ultimo nominato vescovo della Città Santa. (Qui si suppone che “Giacomo il Maggiore” e “Giacomo il Giusto” siano la stessa persona.) Gesù si trova probabilmente già a Nusaybin (presso Edessa), da cui proseguirà verso l’India.

Nel 41 d.C. Paolo incontra Seneca in Corsica ed insieme al filosofo incomincia a progettare la “nuova religione”.[11] Paolo ottiene appoggio militare segreto sul territorio palestinese.

Nel 44 d.C., dopo aver predicato in Siria e in Cilicia, Paolo torna a Gerusalemme apparentemente per portare una colletta della Chiesa di Antiochia alla Chiesa di Gerusalemme, motivata dalla predizione di una carestia per voce di un cristiano di nome Agabo. Prima di tornare ad Antiochia e programmare nuovi viaggi, Paolo ordina ai propri sgherri di uccidere Giacomo. Pietro diviene il nuovo vescovo di Gerusalemme, registrato dagli annali come “Simone I”.

Paolo torna a Gerusalemme nel 49 d.C. (per il Concilio) e nel 58 d.C. (in conseguenza del ben noto “Incidente di Antiochia”), e la sua presenza in quest’occasione potrebbe collegarsi alla morte di Pietro. Una folla inferocita lo accusa di omicidio e lo fa arrestare. Sfruttando però la propria cittadinanza romana, Paolo riesce ad ottenere l’estradizione per Roma. Nuovo vescovo di Gerusalemme diviene Giuda Barsabba, figlio di quel Giuseppe Barsabba che i Vangeli annotano tra i “fratelli” di Gesù e che probabilmente coincide con il “bandito” Barabba.

Riunitosi a Seneca, nel 65 d.C. Paolo viene accusato insieme a lui di aver partecipato alla Congiura dei Pisoni e Nerone ne decreta la condanna a morte per decapitazione. Il piano della “nuova religione” sarà comunque ripreso dal giovane discepolo di Paolo, Yosef ben Matityahu, meglio noto ai posteri come “Giuseppe Flavio”, che troverà la buona disposizione dell’imperatore Vespasiano.[12]

{/Postilla}

Un Pensiero per la Pace

Negli ultimi giorni[13] ho in parte perso di vista il mio compito quale essere umano, ovvero contribuire alla concordia e alla realizzazione dei miei fratelli. Certo non era facile restare impassibili alla violenza dello scenario medio-orientale, e altrettanto alle facili prese di posizione delle tifoserie dei socialmedia, pro-Israele o pro-Palestina, spesso infarcite di messaggi d’odio.

Al di là della ricostruzione storica che ho proposto nei miei post, risultato di oltre 10 anni di studio sui temi dei poteri forti, dell’araldica e delle società segrete, è doveroso tenere a mente alcuni fatti indiscutibili.

1. Le persone coinvolte negli eventi, che hanno perduto o perderanno la serenità, la salute psico-fisica o addirittura la vita, sono persone semplici, che cercano come tutti noi di godersi la giornata, di arrivare a fine mese e di avere dei buoni amici. Pochissimi di loro sono responsabili di quanto è accaduto e accadrà, siano essi Israeliani o Palestinesi, e anche se alcuni sostengono di odiarsi l’un l’altro, la loro affermazione è solo il frutto di ignoranza, sofferenze famigliari e propagande politiche che in tutto il mondo hanno facile presa su chi non ha il tempo si fermarsi ad analizzare gli eventi con la necessaria razionalità. Il popolo non ha colpe;

2. Anche se i politici sono innegabilmente colpevoli, anche se il sionismo non è meno colpevole del fascismo, abbiamo tutti il dovere di galleggiare al di sopra di tale ovvia constatazione. La sofferenza che ci viene offerta, benché sia nostro dovere contenerla, sarà comunque uno strumento di crescita ed evoluzione della razza umana. I “cattivi” sono dopotutto un mezzo nelle mani di una Coscienza Cosmica che io ritengo fondamentalmente amorevole. Se il mondo fosse equilibrato, l’Amore non avrebbe alcun modo di manifestarsi. I “cattivi” sono poi anch’essi il frutto della propria storia, e della Storia con la “S” maiuscola che li ha preceduti e che ha permesso alla loro classe di costituirsi. E non c’è alcuna possibilità che un “cattivo” sia felice, per quanto ricco o potente sia. Presentatemi un cattivo felice e rivedrò la mia opinione. Per ora, per quanto viaggino più di me, per quanto scopino più di me, per quanto godano di adorazioni e servitù, io continuo a sentirmi più fortunato di loro. Io non li odio. Non odio i Rothschild né qualunque altra famiglia. Sono solo lontani dalla comprensione. Chissà mai che qualcuno di loro si penta, come accadeva a Devil-Man nel manga di Go Nagai.

Anti-Sionismo

Quando mi definisco “anti-sionista”, non intendo assolutamente negare il diritto al popolo ebraico di esistere o di professare il proprio credo. Ciò sarebbe nell’accezione moderna del termine (per quanto impropria dal punto di vista semantico) “anti-semitismo”.

Capisco che dopo il dramma dell’olocausto, gli Ebrei desiderassero a ragione di ricostituirsi come comunità, per esser certi di trovare comprensione nei propri simili ed elaborare il lutto. Ritengo però una pessima scelta farlo a discapito di altre comunità umane che hanno pari diritto ad esistere. Gli Ebrei avevano abbandonato in massa la Palestina dal 135 d.C., e il territorio era arabo dal 637 d.C.. Inoltre il 99,9% degli Ebrei oggi sono discendenti dei Kazari convertiti nell’VIII secolo d.C., che non hanno legami di sangue con la Palestina (per questo parlare di semiti e anti-semitismo è improprio). Chiedere che un territorio venga ceduto dai suoi abitanti, che avranno casa, poderi e ricordi su di esso, è improponibile. Averlo imposto con la forza ha inevitabilmente prodotto odio, guerra e morte, e sarebbe ingenuo pensare che non si fosse previsto. Sarebbe stato più logico assegnare un territorio agli Ebrei negli Stati Uniti o in Etiopia, dove la comunità ebraica era già strutturata e aveva un proprio equilibrio prima della 2a guerra mondiale. Tornare per forza in Palestina in nome di un muro, quello che viene detto “Muro del Pianto” e che è l’unica parete del Tempio rimasta in piedi dopo l’ingresso dei Romani a Gerusalemme (nel 70 d.C.), non è niente più che un capriccio immaturo. Sono certo che se ci si fosse mossi per mezzo del dialogo e non dell’esproprio, i Palestinesi non avrebbero proibito a nessuno di visitare Gerusalemme e il suo muro.

Oggi però i fatti sono fatti, e non possiamo vivere in un mondo che non sia quello reale. Comprendiamo la natura dell’odio palestinese e israeliano, e operiamo per lenirlo, non per alimentarlo. Cerchiamo di far capire che ogni azione violenta è stata il frutto di un’errata comprensione, di sé stessi e degli eventi, di propaganda, povertà ed ignoranza. Predichiamo il perdono. Invitiamo ad abbandonare le credenze rigide e ad ammettere la possibilità di aver sbagliato e di sbagliare. Invitiamo ad ammorbidire le religioni, a depurarle di tutto ciò che impedisce una sana discussione. La religione dovrebbe essere un mezzo per la ricerca della verità, non per imporre qualcosa senza addurre motivazioni. Nessun Dio potrebbe metterci nella situazione imbarazzante di dover imporre agli altri qualche cosa che nemmeno noi comprendiamo.

Togliete le bandiere dai vostri profili. Accettiamoci come uomini, come fratelli. E stasera al bar, avvicinate il vostro nemico per offrirgli una birra. Capirete che l’odio è solo l’espressione impacciata di un dolore profondo. Comprendetelo e sanatelo, e anche l’odio se ne andrà.


[1] Società Segreta istituita nel 1873 a Paray-le-Monial dal gesuita Victor Devron e dal barone russo-spagnolo Alexis de Sarachaga. Cfr. D. Marin, Appunti di Storia Proibita, #1.

[2] Non si confonda la P^2 (P-Quadro) con la P2 (P-Due) di Licio Gelli. La seconda era al più il “braccio” italiano della prima, avente lo scopo specifico di porsi ad intermediario tra gli uffici di GLADIO (l’operazione stay-behind della CIA in Italia), le organizzazioni terroristiche (Brigate Rosse, Prima Linea, Lotta Continua, NAR, Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo) e la criminalità organizzata (in particolare Cosa Nostra).

[3] La versione secondo cui il mandante dell’omicidio di Giacomo sarebbe stato Paolo di Tarso è riportata in un manoscritto siriaco custodito nell’archivio del Duomo di Vercelli e tradotto da Luigi Leante che lo include ne Il Crocifisso di Galatone (Congedo, 1997).

[4] Il sottinteso qui è che la parte più influente della nobiltà europea sarebbe discesa dai Flavi e dagli Anici di adozione. Cfr. Flavio Barbiero, Le Radici Giudaico-Cristiane dell’Europa, Profondo Rosso 2018.

[5] Vi è un diffuso fraintendimento terminologico sulla base del quale gli “Ebrei del Patto” vengono assiduamente quanto erroneamente indicati come “Ebrei Askhenaziti”. Chiariamo perciò quali sono i contorni di quest’ultima categoria. Gli Askhenaziti sono semplicemente gli Ebrei Tedeschi (Askhenaz, secondo la Bibbia, era un discendente di Jafet che guidò i Germani dalla Scizia al Nord Europa). Essi discendono da quei Kazari che si convertirono all’ebraismo nell’VIII secolo d.C. e non hanno legami di sangue con la Palestina. Oggi gli Askhenaziti sono per lo più brava gente che lavora per arrivare a fine mese, e sono innocenti, così come lo sono gli Arabi Palestinesi. Anche i Sefarditi (Ebrei di Spagna) sono per lo più Kazari, e anche loro sono innocenti. I leader sionisti (quali ad esempio i Rothschild) al contrario non sono Kazari; un’attenta disamina della loro genealogia (riportata nel solito Appunti di Storia Proibita, #1) riconduce chiaramente all’Israele biblico e alla famiglia davidica. Essi vennero dalle scuole teologiche di Sura e Pumbedita di Babilonia (Baghdad) fino in Kazaria per coordinare la conversione del popolo ordinata dal Khagan Bulan. Potremmo dire che ottennero “cittadinanza” kazara, ma non che fossero originari della regione. In linea di massima ogni famiglia coinvolta nel “Patto” può essere ricondotta ad una famiglia sacerdotale dell’Israele biblico.

[6] Per logica, infatti, l’accettazione del “flusso” non può prescindere dall’accettazione dell’“ombra”. In altre parole, per poter “risorgere” è necessario prima “morire”.

[7] È inoltre sospetto che il tema di una morte e di una resurrezione in senso fisico sia stato tanto caro alle gerarchie romane ma non altrettanto agli Elcasaiti che per logica avrebbero dovuto manifestare una maggiore vicinanza emotiva alle esperienze straordinarie del loro congiunto.

[8] La tradizione di un magistero di Gesù in Kurdistan è viva ancora oggi presso i Bektashi dell’Anatolia, i Nusairi della Siria e gli Yazidi dello stesso Kurdistan. Tali comunità, registrate usualmente nel più ampio gruppo dei Musulmani Alawiti, sono in verità quanto resta delle comunità giudaico-cristiane delle stesse zone che rifiutarono di conformarsi alla dottrina di (San) Paolo. In particolare, dopo aver lasciato la Palestina, Gesù si sarebbe stabilito nella città di Nisibis (oggi Nusaybin), poco lontano da Edessa e dal sito megalitico di Gobekly Tepe. Curiosamente, fu in un monastero di Nusaybin che il filosofo armeno Georges Ivanovič Gurdjieff avrebbe appreso i principi della Quarta Via. Lo stesso Gurdjieff sosteneva che il suo insegnamento rientrasse nel novero della gnosi trasmessa all’interno delle prime comunità cristiane. Il centro di tale insegnamento era il cosiddetto “Ricordo del Sé”, che salvo la differenza di termini coincide pienamente con la “consapevolezza” che si pone ad obiettivo delle pratiche meditative buddiste ed induiste. Ciò conferma ulteriormente il legame tra Gesù e l’India. Cfr. Holger Kersten, La Vita di Gesù in India: La sua vita sconosciuta prima e dopo la Crocifissione – La verità sulla Sacra Sindone, Verdechiaro 2020, pp. 153-156; Diego Marin, Appunti di Storia Proibita, SoleBlu 2022, #7 “Gurdjieff e l’Europa”.

[9] Cfr. Holger Kersten, La Vita di Gesù in India: La sua vita sconosciuta prima e dopo la Crocifissione – La verità sulla Sacra Sindone, Verdechiaro 2020.

[10] Cfr. Kosaka Wado (a cura di), Takeuchi Documents I, Lulu 2017; Kosaka Wado (a cura di), I Documenti Takeuci 2, Lulu 2017; Kosaka Wado (a cura di), I Documenti Takeuci 3, Lulu 2018; Michiyo Miwa (a cura di), I Documenti Takeuci 4, Lulu 2019.

[11] Secondo la tradizione orale, Paolo avrebbe costruito un monastero e una chiesa nel villaggio corso di Ghjunchetu (it. Giuncheto) prima di continuare il suo cammino verso l’Africa. Curioso che di questo viaggio in Africa non vi sia traccia né negli Atti degli Apostoli, né nelle Lettere di Paolo stesso, come se si fosse ritenuto opportuno depennarlo. Vi sono tuttavia indizi che riconducono a Paolo le famiglie italiane dei Sauli (Lucca-Genova) e dei Borghese (Siena-Roma).

[12] In merito al legame tra (San) Paolo e Giuseppe Flavio, si consulti Diego Marin, Gli Eredi di Atlantide, SoleBlu 2022, pp. 192-195.

[13] Il riferimento è agli attentati di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023 e alla ritorsione dell’esercito israeliano sulla popolazione dei Gaza nei giorni immediatamente successivi.

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I 5 Petali di Orfeo

Orfeo, Gran Maestro dell’Ordine di Antares, formulò il suo Insegnamento dei 5 Petali ad Atlantide in un momento imprecisato della sua gloriosa storia. Come trovate sia su Platone nel Baltico che su Cronache del Dominio, la natura simbolica dei “9.000 anni” di Platone è stata dimostrata incontrovertibilmente, mentre da altre fonti si può dedurre l’estensione del periodo atlantideo dal 5.000 a.C. circa (fondazione) al 2.193 a.C. (sconfitta nella guerra contro i Greci guidati dall’Atene-baltica, oggi Karlskrona). La nazione, costituita inizialmente nello Jutland, si era estesa progressivamente alla Pomerania (compresa l’isola di Rügen che ne ospitò la capitale), alla Scandinavia meridionale e alle Sette Isole del Mare d’Occidente (tra cui l’Islanda, la Groenlandia e Baffin). Quando i Celti e i Germani (originari della Scizia) raggiunsero le terre del nord europeo nel 2.756 a.C., assorbirono l’insegnamento di Orfeo nel loro “Seiðr”, ricordando il maestro con il nome di Zalmoxis.

Non è rimasta precisa memoria dell’Insegnamento dei 5 Petali, ma vi sono indizi sulla sua somiglianza con il più recente pensiero buddista. Abbiamo perciò proposto una sua ricostruzione, attingendo anche al saggio esperienziale di G. Gotto Profondo Come il Mare, Leggero Come il Cielo.


I 5 Petali di Orfeo

1° Petalo: Non azione, primo significato. La più grande difficoltà quando si è in attesa è restare fermi. Seduti ad un tavolo, se non stiamo bevendo né parlando, se siamo soli, ci sentiamo in imbarazzo. Lo stesso in fila alle poste o in qualunque luogo che non sia appositamente concepito per la riflessione o la preghiera. Da un lato temiamo il giudizio degli altri, verso la nostra solitudine o verso il nostro sguardo che potrebbe apparire indagatore e inopportuno. Oppure verso la nostra inattività, talvolta tradotta in pigrizia od irresponsabilità. Peggio se non riusciamo ad ascoltare e ad accettare i nostri pensieri, se dobbiamo per forza sfuggirgli. Il che equivale a non accettare la nostra situazione presente, l’unica peraltro che esiste per davvero e dalla quale dobbiamo inevitabilmente cominciare per migliorare la nostra esistenza. Perciò rigiriamo le dita, cerchiamo un giornale, facciamo scrolling compulsivo sul telefonino, ordiniamo da bere anche se non ne abbiamo voglia. Nessuna delle due ragioni è nobile. Il timore del giudizio altrui nasce spesso dalla nostra abitudine al giudizio, e comunque ci costruisce una gabbia tutt’intorno che placa la nostra iniziativa ogni volta che abbiamo il sospetto di non soddisfare le aspettative della società, della famiglia o del nostro gruppo sociale. Placare la nostra iniziativa (al pari di costringerci ad agire controvoglia) è la principale fonte della nostra sofferenza. Infine, nell’altro caso, rifiutare i nostri pensieri e la realtà delle cose, ci preclude ogni possibilità di sviluppo e di realizzazione. E la non realizzazione del proprio potenziale è, in ordine di importanza, la seconda fonte della nostra sofferenza. Dobbiamo perciò accettare ed imparare a godere della pace e della solitudine quando ci si presenta l’occasione, senza rifiuto né eccesso.

1° Petalo: Non azione, secondo significato. «Praticare la non-azione significa anche imparare a fare un passo indietro. Non tutto quello che accade intorno a te richiede una tua reazione. Osserva attentamente le situazioni che si vengono a creare e, se il tuo intervento non è strettamente necessario, non agire. In questo modo non sarai sempre distratto e stressato. Potrai concentrarti su quello che conta davvero. Non-agire significa inoltre evitare di farti coinvolgere in ogni discussione, ogni problema, ogni situazione. La tua vita si complica terribilmente quando vuoi aiutare chi non vuole farsi aiutare, consigliare chi non ha chiesto consiglio, risolvere problemi che non puoi risolvere. Concentrati su te stesso, sulle tue domande senza risposta» [Gotto 2023, p. 165].

2° Petalo: Non desiderio. «Il non-desiderio conduce a non avere sempre così tante aspettative su tutto ciò che fai. Le persone non sanno cosa vogliono perché vogliono troppo. E vogliono che questo “troppo” sia perfetto. Ma le relazioni perfette non esistono. Non esistono lavori, luoghi e situazioni perfette. Quindi, rilassati. Non puoi sapere se quella serata con quella ragazza andrà bene, se quell’esame andrà male, se il tuo cane avrà fatto il bravo o ti avrà distrutto la casa mentre eri al lavoro. E va bene così. Osserva le tue mille preoccupazioni sul futuro: che cosa sono se non illusioni? D’altronde, la stragrande maggioranza delle cose che ti preoccupano poi non si realizzano. La vita non è l’immagine mentale che crei del futuro. La vita è qui e ora» [Gotto 2023, p. 165]. Considera inoltre che sul futuro non hai controllo, e non ha alcun senso preoccuparsi di qualcosa che non è possibile controllare. Fai quello che puoi senza essere maniacale, usa precauzioni ragionevoli, ma non cadere nell’ossessione. Quando ti accorgi che per controllare qualcosa stai rinunciando a vivere, fermati e lascia che le cose vadano come devono andare. Stare ora all’inferno per paura di finirci in futuro è paradossale. Certo, le compagnie assicurative e le campagne politiche aggressive tentano di convincerti che firmando una polizza o rinunciando ad una fetta (spesso non trascurabile) della tua libertà tu possa ottenere il controllo (o la scurezza) totale; ma è una menzogna, salvo che tu non ti abbassi a barattare la tua vita improntata sulla realizzazione del sé con un surrogato impostato sul principio stimolo-risposta, rinunciando ad ogni estrosità e accettando (nonostante il controllo) di permanere nella sofferenza. È infine importante avere sogni ed obbiettivi, ma non dobbiamo sceglierli con l’idea di accettare la sofferenza adesso nella convinzione di trovare la felicità ad obbiettivo raggiunto. Anche trascurando la possibilità di fallire, la felicità generata dal successo è effimera e dura quanto un battito di ciglia. L’importanza del sogno sta tutta nel cammino che esso comporta, ed è su questa base che dobbiamo sceglierlo, affinché ci sproni ad un viaggio piacevole. Dobbiamo scegliere in funzione del viaggio, non della destinazione.

3° Petalo: Non attaccamento. «Il non-attaccamento è la consapevolezza che possiamo, anzi, dobbiamo avere pensieri sul passato e sul futuro, ma dobbiamo porre un certo distacco tra noi e questi pensieri. Una mente meditativa pensa a quello che è successo sapendo che è successo e che non tornerà più; pensa a quello che potrebbe succedere con la piena consapevolezza che, finché non accadrà, non sarà altro che un’immaginazione. Non si identifica con ciò che ricorda o visualizza. Il faro che illumina è stato costruito nel momento presente. Lì è radicato» [Gotto 2023, p. 166]. Considerate inoltre che il nostro Universo è fondato sul principio dell’impermanenza. È naturale che due grandi amici a forza di piccoli cambiamenti finiscano per diventare incompatibili, e non c’è alcuna ragione per farne un dramma o cercare di adattare vecchi schemi a situazioni nuove. Così potremmo diventare inadatti ad un lavoro nel quale primeggiavamo, o perdere il gusto in attività che prima ci soddisfacevano. Anche in questo caso, l’unico atteggiamento ragionevole è guardare avanti ed aprirci alle opportunità del futuro. La situazione può essere scomoda per un momento, ma proprio l’impermanenza garantisce che non sarà così per sempre. Ci saranno momenti migliori anche solo per un fatto statistico, purché ovviamente non ci si immobilizzi. È importante ricordare che il primo passo non è mai per raggiungere la meta, ma per spostarsi da dove ci si trova. L’eccezionalità dell’amore (quello vero) non sta affatto nel mantenere abitudini e sentimenti invariati, ma nel farli evolvere nei due partner in maniera costantemente compatibile.

4° Petalo: Non giudizio. Non giudicare, lo dico per te. Se lo farai, tenderai a sopravvalutare l’importanza del giudizio, del tuo come di quello degli altri. Inizierai a supporre che gli altri ti giudichino e darai un peso enorme al loro giudizio, anche quando sarai solo tu ad immaginarlo. La tua energia nervosa, la tua agitazione, si trasmetterà attorno a te. Forse proprio questa “energia” renderà le persone inquiete portandole effettivamente a giudicarti. Se seguirai questa strada, ammazzerai la tua spontaneità, perderai la libertà, e non proverai più il tepore della serenità. «Non-giudizio significa non avere un’opinione su tutto ciò che accade. Non è necessario etichettare ogni singola cosa come giusta o sbagliata, bella o brutta, piacevole o spiacevole. Purtroppo i social network ci spingono a giudicare costantemente, a fornire opinioni non richieste. Ci chiedono “A cosa pensi?” scatenando il nostro egocentrismo. È così che si finisce a vivere troppo dentro le proprie riflessioni, nell’idea che si ha di sé stessi e nei dubbi su ciò che gli altri pensano di noi. Osserva la realtà e basta, senza farti trascinare dai pensieri giudicanti. Molte cose sono perfette così come sono» [Gotto, pp. 165-166].

5° Petalo: Non sé. «La tua mente ha costruito un’immagine di te stesso. Puoi chiamarla “sé”, “io”, “ego” o come preferisci. Questa immagine mentale contiene il tuo nome, il tuo passato, i tuoi pensieri, le tue credenze, le tue emozioni, il tuo aspetto fisico e molte altre cose che consideri tue. Quando qualcuno ti chiama o pensi a te stesso, questa immagine affiora nella tua mente. Ebbene, questo “sé” non è che un’illusione. Il “sé” è sempre diverso, e se è sempre diverso, come puoi dire che esiste? Tu, in questo momento e in questo luogo, non sei nemmeno la stessa persona che eri cinque minuti fa. Poco fa avevi pensieri diversi, sensazioni diverse. Dicevi cose diverse, facevi cose diverse. Eri seduto in un altro modo, quindi anche il tuo aspetto era diverso. Il tuo stato d’animo era diverso. Come puoi dire di essere la stessa persona? Ricordati l’impermanenza: la vita è un fiume che scorre. Tutto cambia, niente è mai uguale a sé stesso. Tu cerchi di assomigliare il più possibile alla tua immagine mentale. Ma questa è solo un’idea: non è reale. E infatti ci saranno delle volte in cui ti consideri valoroso e delle altre in cui ti consideri debole, sconfitto. Se il tuo “sé” cambia continuamente non può essere reale. I tuoi pensieri cambiano, le tue emozioni cambiano, cambiano il tuo aspetto, la tua età, la tua esperienza, il tuo atteggiamento e le tue idee… Se elimini questi elementi che ritieni essere tuoi, con cui ti identifichi e che non riesci a lasciare andare, che cosa rimane di te? Quando rimuovi il “sé”, ti rimane tutto. L’intero Universo. Questo è ciò che sei. Se crediamo di avere un “sé” permanente, ci attacchiamo a questa idea e ci identifichiamo con le nostre esperienze, i nostri pensieri e le nostre emozioni. Questo può causare sofferenza, poiché ciò che chiamiamo “sé” è in realtà soggetto a cambiamento e non è permanente. Noi vorremmo che lo fosse, ma non lo è. Da questo contrasto tra desiderio e realtà nasce un dolore esistenziale, che però possiamo evitare. L’uomo tende a porsi al centro di tutto e quindi a fare del proprio “sé” un baluardo da difendere a ogni costo. È attraverso l’ego e il suo costante giudizio e confronto che conosce la realtà» [Gotto 2023, pp. 185-190]. Se rinunci a difendere la tua immagine, puoi concederti il lusso di essere libero. Puoi compiere scelte sulla base unica del tuo benessere, senza pensare a cosa ne pensino gli altri. Puoi abbandonare quel lavoro snervante che ti toglieva tempo e salute, ma che tenevi per il denaro e lo stile di vita che ti permetteva di sfoggiare. Puoi correre nei prati di notte, a piedi nudi ululando alla Luna, se solo lo desideri, perché non ti importa di alcun giudizio.