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Ermete Trismegisto, alias Ashyata Sheyimash

Ermete Trismegisto fu Gran Maestro della Fratellanza Bianca Egizia alla fine del XIV secolo a.C. (tra le gestioni di Akhenaton e Atonamen). I 42 libri a lui attribuiti e tradotti in greco ad Alessandria, costituirono una risorsa intellettuale in tutto il bacino mediterraneo fino alla loro sparizione (con la censura di Teodosio) e di nuovo con la loro riscoperta nella Firenze medicea del XV secolo.

Marsilio Ficino, che ne fu il primo traduttore moderno, descrisse Ermete come uno degli antichi maestri di una linea che avrebbe incluso tra gli altri anche Orfeo, Pitagora e Platone. Ficino attribuisce a Ermete la previsione di alcuni eventi religiosi futuri, tra cui la venuta di Cristo, la resurrezione, l’ascesa del Cristianesimo e il giudizio finale.

I suoi insegnamenti suscitarono ampio interesse nelle logge dei muratori, che vi scorgevano una saggezza spirituale e filosofica alternativa e complementare alla dottrina cristiana. Perfino in seno alla Chiesa si valutò di attingere ai Testi Ermetici per integrare le Sacre Scritture.

Nel 1488 lo scultore Giovanni di Stefano ne trasferì l’immagine nelle decorazioni marmoree del Duomo di Siena, in cui lo vediamo nell’atto di offrire un libro a Mosè, simboleggiando così il dialogo tra culture e tradizioni religiose​. Il cartiglio alla base della scena dichiara: «Hermis Mercurius Trismegistus contemporaneous Moysi» (Ermete Mercurio Trismegisto contemporaneo di Mosè).

Il Vescovo di Aire, Francoise Foix de Candalle, meglio noto come Flussas, nel 1570 ca. dichiarò che Ermete si era dedicato alla conoscenza delle cose divine superando quello «che era stato rivelato ai profeti ebrei, ed eguagliando le rivelazioni degli apostoli e degli evangelisti». Nel 1591, infine, lo studioso neoplatonico Francesco Patrizi si rivolse a Papa Gregorio XIV chiedendo che il Corpus Hermeticum venisse insegnato a tutti, finanche ai Gesuiti, affinché potesse servire come una sorta di strumento di conversione per la Chiesa cattolica, dato che il suo fascino avrebbe potuto richiamare «gli uomini capaci di Italia, Spagna e Francia; e forse anche i protestanti tedeschi seguiranno il loro esempio e torneranno alla fede cattolica».

Le proposte di integrazione furono infine bocciate, tanto più che gli insegnamenti di Ermete includevano una forma di magia talismanica che secondo i canoni ecclesiastici si inseriva a pieno titolo nella stregoneria. La massoneria reagì allontanandosi dai monasteri ed eleggendo dei capitoli laici.

Secondo G.I. Gurdjieff, dietro la firma di Ermete si nasconderebbe la figura del sapiente Ashyata Sheyimash, i cui natali furono in un villaggio presso Babilonia nel 1370 a.C. circa.

Ashyata compì due ritiri spirituali sul Vesuvio (Vezinyama), a conclusione dei quali fondò una fratellanza a Giulfapal (Golfo di Afar/Afraore, oggi Afragola) chiamata Hishtvori (lett. “è figlio di Dio chi è consapevole”). Il Paese, sotto giurisdizione degli Opici, era al tempo chiamato Kurlandtech (Kur-tek Land, terra della montagna-sostegno).

Più tardi, il maestro si spostò in Egitto. I suoi insegnamenti – diffusi dai discepoli – avrebbero ispirato le rivolte popolari che segnarono il crollo dell’età palaziale in Grecia e Mesopotamia (fine del periodo acheo e cassita).

Il suo discepolo più illustre fu il faraone Akhenaton (r. 1348-1333 a.C.). Colpevole di avere introdotto il monoteismo – mettendo a rischio il prestigio dell’élite sacerdotale tebana –, nel 1333 a.C. il sovrano fu espulso dal Paese e trovò rifugio ad Harran, nell’Alta Mesopotamia. Con sé recava gli scritti del Maestro Sheyimash, la cui diffusione fece sorgere ad Harran la comunità dei Sabei. Gli stessi più tardi avrebbero fondato una “colonia” a Baghdad.

I Sabei tennero presso di sé i Testi Ermetici in una sorta di lunga incubazione nel periodo l’Occidente ne aveva perso la memoria. Tobias Churton osserva: «è sicuramente strano che proprio quando i Sabei sembrano scomparire da Baghdad, i documenti a noi noti come Corpus Hermeticum appaiono a Costantinopoli dopo un intervallo di 500 anni».

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Antipodi e Permutazioni

Secondo i praticanti della Cabala, la lingua ebraica sarebbe la lingua primordiale parlata dagli Antenarya, da cui le altre (indoeuropee e semitiche) sarebbero derivate. Spiegano inoltre che le parole ebraiche sarebbero state concepite di modo che ogni permutazione delle consonanti chiarisse una sfumatura della parola di partenza, contribuendo a estenderne il significato e a restituirle il senso originario nel caso in cui il tempo lo alterasse. Questo in effetti si realizza, benché in forma minore, anche nel sumero. In particolare si prestava attenzione alle parole di tre consonanti (oggi potremmo dire di tre sillabe) e alle sei possibili permutazioni, ciascuna delle quali identificava un vertice dell’esagramma. Ho perciò tracciato la figura sottostante.

Su due di quei siti (Wuhan e DaLat) si trovano oggi due importanti laboratori biotecnologici. Un terzo ospita una sede della NASA (Punta Arenas). Gli altri tre sono siti archeologici connessi al mito della Terra Cava (Asgarta, Erks e Akakor). Wuhan è agli antipodi di Erks, Punta Arenas è agli antipodi di Asgarta (sul Lago Bajkal), DaLat è agli antipodi di Akakor.

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Dagli Assidei ai Collegi Romani

Una volta stabilizzata la situazione in Palestina, intorno al 1.150 a.C., Giosuè (erede militare di Mosè) assegnò ai suoi fedelissimi il territorio di Gerico, ma essi rifiutarono per ritirarsi nel deserto e vivere sotto le tende tra Gerico ed En-Gadi. Identificati sotto il nome Daniti[1], nel IX secolo a.C. essi costituirono inoltre una comunità in Galilea, erigendo un tempio-monastero sul monte Carmelo.

Una buona metà era tuttavia talmente disgustata dai dissidi sorti con le restanti tribù[2] che preferì migrare verso nord, nel Curdistan, insediandosi in particolare nella vecchia Sciamiramagard (che essi battezzarono “Dan” e che oggi è Van), oltre che nella cosiddetta “Isola dei Beati”, al centro del lago Sevan (oggi sommersa). Qui presero nome di “Recabiti” in onore di Rechab, figlio di Eliezer, figlio di Mosè.

Alcuni testi del XIX secolo fanno riferimento ai Daniti come Assidei/Assidii o Cassidii/Cassiti, descrivendoli come una delle più antiche corporazioni muratorie, presente in Palestina già al tempo di Salomone e coinvolta nell’edificazione del Primo Tempio (IX secolo a.C.).[3] Gli Assidei – sostengono – sarebbero stati depositari di un’antichissima scienza sacra che tramandavano attraverso le loro opere, sotto la guida del leggendario architetto Hiram Abif. Così leggiamo ad esempio in un saggio del 1875 intitolato Rivelazioni Storiche sulla Massoneria:

<Hiram, nel tempio che costruì [il Tempio di Salomone], pose i simboli usati dalla sua associazione. Le colonne Jachin e Boaz stavano ai due lati delle porte del tempio, ed ivi ricevevano il loro salario gli apprendisti e i lavoranti. Il vaso lustrale era sostenuto da dodici buoi, quanti i mesi dell’anno, disposti a gruppi di tre, quanto il periodo delle stagioni. Le sette luci rappresentavano i sette pianeti, o meglio i sette capi dell’Ordine. I settanta pezzi del candelabro significavano le divisioni delle costellazioni, o meglio la mistica compagine dell’ordine stesso, e via discorrendo. Gli operai che egli adunava, disciplinati e obbedienti, ad un solo suo segno si dividevano in Maestri, Lavoranti ed Apprendisti. Dei primi stabilita una [cerchia] eletta, fu questa posta alla custodia del tempio, e le fu data la denominazione di Cassidi o Assidei, o Kadosc, ossia Sacri cavalieri. Da essi più tardi discesero gli Essenii.>[4]

Alcuni membri della fratellanza si sparsero…

<… in Asia Minore e in Grecia, intrecciandosi con le altre diramazioni dei Misteri Cabirici perfezionati [dacché si suppone una coordinazione dalla Fratellanza Bianca Tebana, dalla Confraternita Babilonese di Sarmoung o dall’Ordine di Melchisedek presso il Lago Bajkal]. Assunsero quindi le denominazioni di Compagni di Attalo in Asia e di Operai Dionisiaci in Grecia. Gli stessi portarono i loro statuti pure a Roma, e vissero vita prospera sotto la protezione delle leggi romane: riconoscendo i loro due gradi – Collegio degli Architetti e Collegio degli Artefici, suddivisi all’interno in altri gradi più variati -, gli ordinamenti dell’Urbe riservarono agli Assidei l’erezione dei templi e degli edifici pubblici.>[5]

Fu il secondo re, Numa Pompilio, a istituire a Roma i Collegi degli Artefici (Collegia Artificum), al cui vertice egli pose i Collegi Architettonici (Collegia Fabrorum). I primi membri di questi corpi venivano dalla Grecia (precisamente dall’Attica), invitati da Numa appositamente per l’organizzazione dei collegi.[6] Questi furono affidati alla protezione di Giano, il mitico Re del Lazio che accolse il titano Saturno accettando di condividergli la regalità e i benefici dell’Età dell’Oro. Non è chiaro se tali associazioni fossero dapprincipio accostate al culto di Saturno (Moloch o Baal in Palestina) o se vi approcciassero dopo l’esportazione in Grecia e in Italia.

Tradizionalmente si pone l’operazione di Numa al 714 a.C., e tuttavia è ben noto che la fondazione di Roma – e di conseguenza tutti gli eventi datati Ad Urbe Condita) – fossero stati anticipati al fine di avvicinarli alla fondazione della rivale Cartagine (814 a.C.). Tanto è vero che nella Vita di Numa (parte delle Vite Parallele), lo storico Plutarco pone il sovrano tra gli allievi di Pitagora a Crotone. Considerata l’esistenza su questo piano del filosofo samio dal 575 al 495 a.C., potremmo supporre uno spostamento di tutte le date all’indietro di circa 200 anni.

Asceso al trono all’età di quarant’anni, il regno di Numa si porrebbe perciò all’intorno del 500 a.C.. Ne consegue che eventi accaduti in quegli anni sarebbero stati associati a un sovrano successivo, ovvero a colui che avrebbe regnato nel 500 a.C. secondo la “nuova cronologia”: il despota Lucio Tarquinio. Inferiamo che sarebbe stato Numa (e non Tarquinio) a incontrare la Sibilla Cumana, a ricevere i Libri Sibillini e a istituire l’Ordine dei suoi custodi: i Duoviri Sacri Faciundis. In tal caso, la consigliera di Numa, la “sibillina” Egeria, sarebbe appunto la Sibilla Cumana. E i libri sepolti con il re nel Gianicolo e successivamente bruciati in quanto “pericolosi” sarebbero ancora i Libri Sibillini.[7]

L’evenienza che Numa fosse sabino (originario di Cures), esponente perciò di un popolo cugino a quello ebraico (Ebrei e Sabini venivano entrambi dagli Hyksos), unita ai rapporti coi pitagorici (di cui si attestano i contatti, se non un vero coordinamento, con la comunità essena), ne fanno in effetti il sovrano più adatto all’instaurazione di un Ordine simile a Roma.

Nel 367 a.C. la Lex Licinia Sextia portò i membri dei Sacri Faciundis a quindici, rinominandoli Quindecemviri Sacri Faciundis. Nel I secolo il filosofo Seneca era uno di questi, il ché suggerisce in primo luogo che ereditasse il mandato di Numa, in secondo che gli Assidei romani costituissero una scissione ostile e reietta degli Esseni palestinesi. Altrimenti non sarebbe seguito lo scontro tra i farisei mobilitati da Seneca (gli Ebrei del Patto) e i Desposyni guidati da Giacomo di cui abbiamo detto in altre pubblicazioni.[8] (Cfr. I Leader di Israele.) Scontro protrattosi ai primi anni del XVIII secolo.

Un contributo ai Collegi Romani potrebbe ricondursi inoltre ai Daniti del Lago Sevan. Questi si trovavano entro il Regno di Urartu (oggi Armenia), costituito nell’860 a.C. da quegli stessi Shardana che erano venuti in Libano nel 1200 a.C., dopo l’epidemia di malaria in Sardegna. I sovrani di Urartu erano detti “Sari” o “Seri”, la cui radice “Shar” (lett. “principe”) è la stessa che trasforma “Dan” in “Shardana” (lett. “principi di Dan”). Dacché il geografo alessandrino Tolomeo (100-180 d.C. ca.) adottò lo stesso appellativo, “Seri”, in riferimento alla fratellanza ivi installata.

Nella Geografia, Tolomeo attribuisce ai Seri l’edificazione in Asia della città di Iskedin (Issedon), il ché si allinea curiosamente con la presenza ancora oggi di diversi siti denominati Edinisk (Udinsk) sulle rive del fiume Selenge e dei suoi affluenti, non molto a sud del Lago Bajkal. Edin-Isk è l’inverso di Isk-Edin, e come detto altrove era usanza presso le antiche fratellanze invertire le sillabe per indicare gli stessi concetti o concetti similari.[9] Di nuovo torna l’idea di un coordinamento da parte dell’Ordine di Melchisedek installato sul Bajkal.

Nell’VIII secolo alcuni principi di Urartu si spostarono in Etruria (Toscana e Alto Lazio) spaventati dagli attacchi degli Assiri e richiamati dalle nuove miniere appena scoperte nella regione italiana. Qui avrebbero accelerato la formazione della cultura etrusca, divenendo coloro che i Romani chiamavano princeps, con possibile riferimento al già citato “Shar”.

Nei princeps affondano le radici della Gens Claudia, che diede a Roma gli imperatori Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone (dal 14 al 68 d.C.). Il capostipite, Clauso, aveva installato la propria famiglia a Caere (odierna Cerveteri) finché nel 504 a.C. il suo discendente Attus Clausus (romanizzato in Appio Claudio) si trasferì a Roma con il proprio seguito di parenti, amici e ben 5000 clientes, a ciascuno dei quali furono assegnati due iugeri di terreno (equivalenti a circa mezzo ettaro). Allo stesso Appio Claudio, che fu subito accolto nel patriziato romano, furono assegnati venticinque iugeri. Siamo di nuovo entro il regno di Numa Pompilio.


[1] I Daniti, noti anche come “Tribù di Dan”, integravano elementi della famiglia mosaica ed ex guerrieri mercenari di etnia shardana. Secondo Manetone, Mosé sarebbe stato infatti coordinatore delle truppe mercenarie shardana installate a Goshen, nella regione orientale del Delta, con le quali avrebbe raggiunto un’intesa fraterna. Una volta conquistata Canaan, i Daniti avrebbero costituito due comunità monastiche, rispettivamente nel deserto palestinese tra Gerico ed En-Gadi, e sull’“Isola dei Beati” nel Lago Sevan, oggi sommersa. Più tardi (nel 161 a.C.) i Daniti del deserto si sarebbero amalgamati con la colonia della Fratellanza Bianca sul Mar Morto (a Qumran), divenendo coloro a cui normalmente ci si riferisce come “Esseni”. Cfr. D. Marin, Breve Storia degli Illuminati, SoleBlu 2022, p. 32.

[2] Poiché Mosè era stato scelto da Dio per trasmettere al popolo la Legge, si stabilì inizialmente che la carica di sommo sacerdote spettasse in eterno alla sua discendenza. Tuttavia i più giovani tra gli Israeliti ritenevano poco opportuno affidare tale incarico (che includeva la custodia dell’Arca dell’Alleanza) a coloro nelle cui vene scorreva sangue egizio. Infine, pur non ottenendo la destituzione dall’incarico, la protesta condusse nondimeno alla revisione delle genealogie ufficiali, di modo che nei registri del Tempio i discendenti di Mosé figurassero (falsamente) discendenti di suo fratellastro Aronne. Da allora al termine “Daniti” si preferì il più neutro “Leviti”.

[3] L’Umanitario Giornale Massonico, Anno I, Edizione II, Palermo, 1867. Cfr. anche F. T. e B. Clavel, Storia della Massoneria e delle Società Segrete, Gherardo Casini 2010.

[4] M. G. da C., Rivelazioni Storiche su la Massoneria, Edizione II, Tipografia G. Faziola e C., Firenze, 1875, p. 29.

[5] M. G. da C., Rivelazioni Storiche su la Massoneria, op. cit., p. 31.

[6] F. T. e B. Clavel, Storia della Massoneria e delle Società Segrete, op. cit.

[7] Secondo Tito Livio (Ab Urbe Condita, Lib. XL) e Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, Lib. XIII), i libri furono scoperti casualmente nel 181 a.C. quando un contadino, scavando nel Gianicolo, trovò due casse di pietra: una contenente il corpo del re (ormai decomposto), l’altra i rotoli. In totale vi sarebbero stati 12 libri di diritto religioso e 12 di filosofia greca. Ritenuti pericolosi, su suggerimento del Senato le autorità romane ordinarono che i testi fossero bruciati.

[8] Cfr. Appunti di Storia Proibita, I.P. 2022, #12; e CoCreatori del Cosmo, I.P. 2024, App. C.

[9] Cfr. Appunti di Storia Proibita, I.P. 2022, #16; e Cronache del Dominio, I.P. 2024, p. 42.

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Dalla Struttura di Asgharta alla Fratellanza di Babilonia

Nella cultura induista il simbolo a lato rappresenta il “suono” della creazione o, in altri termini, la frequenza dell’onda d’urto innescata dal Big Bang. Viene comunemente traslitterato in alfabeto latino come OM, e tuttavia, a nostro parere, è più importante come esso si pronuncia, in quanto sempre l’induismo ritiene che il suono dell’OM contenga in nuce le stesse potenzialità dell’onda creativa. Adottando ancora l’alfabeto latino, suddetta pronuncia verrebbe resa in AUMMM, con la triplice M ad indicare che la vibrazione della M deve essere sostenuta per alcuni secondi.

È nostra ipotesi che la stessa pronuncia venisse resa in un precedente alfabeto (oggi perduto) in uso presso il popolo Antenarya, da cui in momenti diversi sarebbero emersi tanto il popolo Indiano (Antenarya > Cultura di Harappa-Mohenjo Daro > Indi) quanto quelli Latino (Antenarya > Sciti > Hyksos > Sabini > Latini) e Germanico (Antenarya > Sciti > Germani). Esplicitamente:

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Antichi, Agharta, RosaCroce

Quando sistemammo la prima volta gli appunti di Mario Miniaci, firma del Corriere e cronista in tempo reale delle ricerche di Alessandro Porro, io e gli altri membri del Rabdo Team ci affidammo all’interpretazione dei protagonisti della prima ora.[1] Il geologo Floriano Villa (che completava il gruppo con la cineasta Luciana Petrucelli), ragionando sulla profondità delle “capsule” individuate da Porro (-400 metri), le collocava temporalmente a 40 Milioni di Anni Fa, entro l’epoca geologica denominata “Eocene”.

All’ennesima rilettura del Diario di Miniaci dovemmo tuttavia dare un certo peso all’affermazione dell’ingegnere secondo cui le capsule “nobili” (le più grandi, Ø = 70 metri), che lui teneva particolarmente sott’occhio, cambiavano talvolta posizione. Erano quindi capaci di attraversare terra e roccia, dacché parimenti si sarebbero potute costruire in superficie, facendole quindi penetrare il sottosuolo. Perciò l’età dello strato geologico che le accoglie non corrisponde per forza all’età delle strutture.

Le analisi dei miti sumeri esposte in Cronache del Dominio hanno rivelato l’applicazione alla cosmogonia di una curiosa “inversione di termini”. Gli esseri umani, specie di stirpe reale, cominciano a un certo punto a presentarsi come “dèi” e “creatori”. Essi lavorano con il sangue di un primate, verosimilmente il Dinopithecus Ingens, mescolandolo con sangue umano e generando un nuovo essere che potremmo chiamare Dinopithecus Sapiens. In altri termini, i tanto acclamati Anunnaki (gli dèi del mito sumero) eravamo nient’altro che noi.

Dinopiteco Ingens

A quel punto sono i Dinopitechi a essere chiamati “uomini”. Essi lavorano per gli “dèi” e ne risparmiano la fatica, finché un bel giorno la misura è colma e scoppia una guerra tra specie. Manetone, raccogliendo le memorie egizie, riferisce di un’età civile o “regno degli dèi” tra il 28.375 e il 14.475 a.C., a cui sarebbe seguita la rivolta e l’inversione di ruoli. I nuovi “uomini” (i Dinopitechi) diventano la specie dominante e sono loro stavolta a proclamarsi “dèi”, sebbene Manetone li surclassi e li denomini “semi-dèi”, collocando il loro dominio tra il 14.475 e il 13.220 a.C. Nel 13.220 a.C. gli Homo Sapiens capovolgono le sorti del conflitto e – almeno sul piano materiale – la guerra è vinta, coi Dinopitechi costretti a rifugiarsi sottoterra entro le capsule e in stato di ibernazione.

A quanto riferiscono medium e contattisti, le scimmie avrebbero tuttavia “semplicemente” abbandonato i loro corpi, intraprendendo una nuova esistenza in forma astrale e concedendo il privilegio di comunicare con loro a pochi eletti scelti tra gli umani. Da questi si farebbero conoscere come gli Antichi. D’altro canto la civiltà degli Homo avrebbe subito un duro colpo appena 600 anni dopo la vittoria (nel 12.600 a.C.), quando una cometa del diametro di alcune decine di chilometri penetrò l’atmosfera e si spezzò in tre frammenti che impattarono in altrettanti siti del Canada orientale.

Lo spostamento dei poli geografici, il rebound per il peso sottratto dalle vecchie calotte, la conseguente attività sismica e vulcanica, la variazione delle fasce climatiche e la sospensione della polvere in atmosfera contribuirono all’estinzione della megafauna. Addio al Megaterio, al Mammut (con opportune eccezioni), allo Smilodonte, all’Orso delle Caverne, al Brontoterio, al Megacero, e a tanti altri… e anche la specie umana si trovò sull’orlo dell’estinzione.

Il romanziere Howard P. Lovecraft, che aveva letto degli Antichi nel Necronomicon di Abu al-Haitham, collocava la loro esistenza materiale a decine di milioni di anni fa, dacché parrebbe che come Villa avesse accolto una valutazione sulla profondità delle capsule, ascrivibile – per esclusione – a prospezioni effettuate negli anni ’20 dal generale Cesare Bardeloni, il primo a costruire un “rabdomante tecnologico”. Lovecraft nomina infatti per la prima volta gli Antichi, collocandoli temporalmente, ne Le Montagne della Follia, pubblicate nel 1931. «Nella sua dimora a R’lyeh, il morto Cthulhu attende sognando».[2] Sugli stessi temi il Solitario di Providence potrebbe aver udito dal nonno materno, Whipple Van Buren Phillips, di cui si sospetta l’appartenenza alla Società Teosofica.

È interessante che secondo Lovecraft gli Antichi avessero un cervello “a cinque lobi”, laddove Alessandro Porro evidenzia l’inscrizione di un simbolo “a cinque lobi” nei memorabilia custoditi nelle capsule. Ancora, ne La Casa delle Streghe (1932), l’autore riferisce che alcuni di loro sarebbero fuggiti con i loro corpi fisici nello spazio, approdando su un pianeta con tre soli collocato tra le costellazioni dell’Idra e della Nave Argo, a cui evidentemente – benché non ammesso – si ispira la trilogia Memoria del Passato della Terra del cinese Liu Cixin, da cui è stata tratta la serie TV Netflix Il Problema dei 3 Corpi. La contingenza spiegherebbe perché il fenomeno ufo si trovi sovente intrecciato allo spiritismo: se gli Antichi ascesi comunicano con certi umani, perlopiù appartenenti alla Rosa+Croce, certamente lo fanno più volentieri con i loro parenti stretti dello spazio profondo.

Tra i “contattisti” della prima ora vi fu certamente l’atlante Orfeo (n. 3.760 a.C.), così non sorprende che Abu al-Haitham avesse compilato il Necronomicon prendendo spunto dai Manoscritti Pnakotici rinvenuti nei primi anni ’90 del X secolo tra le rovine di Imer, nell’attuale Oman. Tra il 2.700 a.C. e il 1.150 a.C. “Imer dalle mille colonne” era infatti la prosperosa capitale del Regno di Magan o Punt, a cui persino gli Egizi guardavano con timore e ammirazione. E Punt era la principale colonia a sud della remota Atlantide.

La prima spedizione nota degli Egizi a Punt risale al regno del faraone Sahura (2487-2475 a.C., V dinastia) ed è attestata dalla Pietra di Palermo. L’ultima è descritta invece nel Papiro Harris, dell’epoca di Ramses III (1184-1153 a.C., XX dinastia). Gli Egizi importavano mirra, incenso e babbuini, scambiandoli con farina, birra, vino e carne.

Come si vede in cartina, il regno occupava l’estremità settentrionale del Corno d’Africa e quella meridionale della Penisola Arabica. Esso includeva anche l’isola di Panchea (oggi Socotra, al largo dello Yemen) di cui racconta Evemero nella Sacra Historia.

Regno di Punt

Nato in Sicilia e cresciuto professionalmente alla corte del re macedone Cassandro I, lo storico e filosofo Evemero da Messina (330-250 a.C.) scrive riguardo la natura degli dèi. Nell’opera citata egli afferma di aver visitato Panchea personalmente e in particolare il Tempio di Zeus presso la città di Panara. All’interno dell’edificio vi era ancora conservata una stele di oro puro risalente a migliaia di anni prima, nella quale, per mezzo di caratteri geroglifici (non per forza egizi), i re dei tre “popoli ancestrali” (ovvero gli antenati di tutti gli altri), Atlanti, Sciti ed Etiopi, testimoniavano sul proprio onore la vera origine delle divinità. Secondo Evemero non ci sarebbe stato alcun riferimento né ad abitanti di altri mondi, né ad entità sovrannaturali compartecipi della creazione. Vi era scritto al contrario che gli dèi «erano stati in origine uomini molto potenti, che si erano successivamente guadagnati la venerazione dei propri concittadini».[3]

Che Punt fosse una colonia di Atlantide è evidente, giacché gli Egizi si riferivano a entrambe con lo stesso nome: TaNeteru o TaManu. La distruzione di Irem per i peccati dei suoi abitanti (come riporta il Corano) è poi una chiara trasposizione della distruzione di Atlantide raccontata da Platone.

Ta+Manu:

  • Ta = Terra
  • Manu = stessa radice di Menes, Meni, Manes, Minosse, Manu, col significato di “fondatori”. Si osservi che la “u” finale in lingua egizia denota la forma plurale.
  • Quindi TaManu è la Terra dei Fondatori

Ta+Neteru:

  • Ta = Terra
  • Neteru = Dèi
  • Quindi TaNeteru è la Terra degli Dèi

Il racconto coranico della distruzione di Irem vede contrapposti il profeta Hud e il sovrano Shaddad. Hud è il biblico Reu, figlio di Peleg (eroe eponimo dei Pelasgi/Atlanti), così come Punt è figlia di Atlantide. Dall’unione dei due nomi si può ricostruire un originale *Rehud, assimilabile al gaelico Ruadh, inglese Red, lett. “rosso”.

Dal libro dei Giubilei apprendiamo che Reu viene al mondo quando comincia la costruzione della Torre di Babele, e vi si oppone allo stesso modo in cui Hud si oppone al Re di Irem Shaddad. Babele e Irem vengono entrambe distrutte. Al pari dei babilonesi, anche gli abitanti di Irem erano accusati di sfidare Dio con edifici troppo alti.

Se Irem = Babele, allora Shaddad = Nimrod, ovvero l’accadico Naram Sim. La Bibbia attribuisce infatti a Nimrod l’edificazione della rinomata Torre. Si ricordi che al tempo “Babele/Babilonia” era un appellativo di Kish; solo intorno al 1900 a.C. la più nota Babilonia (destinazione dell’esilio giudaico) fu edificata dagli Amorrei.

Una cronologia approssimativa potrebbe essere la seguente:

  • 2700 a.C.: Fondazione della colonia. Nello stesso periodo gli Atlanti (dallo Jutland) mandano architetti in Egitto per assistere all’edificazione delle piramidi;
  • 2400-2300 a.C.: Inizio del controllo accadico sulla regione;
  • 2120 a.C.: Inizio del periodo indipendente;
  • 1530 a.C.: Inizio del controllo cassita;
  • 1150 a.C.: Rivolte popolari/Caduta.

Necronomicon a parte, non vi è più nulla che giunto fino a noi faccia menzione degli Antichi. Vi fu tuttavia un rinnovato impegno nella comunicazione medianica da parte dei fratelli rosacroce al tempo in cui la loro confraternita si apprestava a scomparire (fine del XVII secolo).

Come espresso all’Appunto #5[4], lo scorporamento del Gruppo di Toledo dalla Fratellanza di Babilonia (141 a.C.) si produsse in duemila anni di scontri in cui le squadre coinvolte cambiarono volto nel tempo finché nel XVII secolo si poterono identificare da un lato nei Desposyni (sostenuti dalla Rosa+Croce) e dall’altro negli Anicio-Flavi (sostenuti dalla Massoneria).

Nel 1689 la Gloriosa Rivoluzione strappava l’Inghilterra agli Stuart (Desposyni) per consegnarla agli Hannover (Anicio-Flavi), mentre nel 1717 la costituzione della Grande Loggia di Londra segnava il definitivo assorbimento della Rosa+Croce nella Massoneria.

Trovandosi sconfitta sul piano materiale, la Rosa+Croce (o quanto ne rimaneva) scelse il giovane Gianfilippo Spinucci affinché fosse edotto ai misteri più alti nel corso di una cerimonia sul lago Bajkal. La famiglia del nobile fermano rientrava nel ramo desposyno, mentre è probabile che venisse mandato sul Bajkal perché in prossimità delle sue rive si trovava l’insediamento ipogeo di Asgartha, sede primeva dell’Ordine di Melchisedek. Le ragioni di tale ipotesi saranno chiarite più avanti.

Dal 1881 al 1934, da una serie di sedute medianiche nella Villa Mancini-Spinucci di Fermo, il palesarsi di un’entità auto-appellatasi Scienziato della Torre dei Miracoli condusse alla realizzazione di alcuni macchinari capaci di trarre energia dal vuoto quantico (e a quanto pare di tante altre stranezze). A questi si intrecciano gli avvistamenti ufologi: sui cieli italiani a partire dai primi anni ’20, e su quelli americani dalla metà dei ’40. Al contempo, tra laboratori segreti gestiti da esponenti della Rosa+Croce e laboratori ufficiali diretti per lo più dal governo americano, si assiste ad un botta e risposta in cui intervengono agenzie di spionaggio e controspionaggio di svariati paesi.

La stranezza a questo punto è che a guidare le azioni della squadra rosacrociana non sono tanto accurate pianificazioni e costruzioni teoriche, quanto i consigli e talvolta i comandi di entità canalizzate dai loro medium. Ai loro colpi, i massoni rispondono con operazioni di spionaggio industriale e retro-ingegneria.

Non è mio compito qui la trascrizione delle singole stoccate che danno corpo a questo incontro di scherma. Riportate in dettaglio nel lavoro di Stefania Marin, Verso una Nuova Co-Scienza, le trovate in sintesi nella mappa concettuale che potete ritagliare e comporre alle pagine seguenti. È mio intento piuttosto mettere in luce nuove connessioni con quanto esposto nelle Cronache del Dominio, riguardanti in particolare la controparte americana di Asgharta. La tradizione tibetana contempla infatti una seconda città sotterranea all’altro capo del mondo, chiamata Erks.

Lo schema include l’Esperimento Philadelphia, condotto negli USA tra il 1931 e il 1943 e avente a oggetto il teletrasporto di una nave da guerra. Lo stesso non viene citato nel libro di Stefania, ma potete approfondirlo nei libri di Charles Berlitz (Esperimento Philadelphia e Senza Traccia), oppure in sintesi nell’appendice a D. Marin, Un’Iniziazione Durata Trent’Anni.


Il primo a far conoscere Erks fuori dal Tibet fu nel 1969 un monaco buddhista che si faceva chiamare Saarumá (antico inglese per “uomo abile”). Questi si trovava tra Córdoba e Buenos Aires alla ricerca di un “oggetto di potere”, un bastone di pietra chiamato simihuinqui (in quechua, “pietra parlante”) appartenuto al civilizzatore KukulCain e segnalato da quelle parti.

Saarumá era anche «un medico di valore, edotto in un’antica tecnica della tradizione tibetana nota come bodkyi gsoba rigpa o sowa rigpa. È basata su un approccio olistico dell’essere umano, partendo dal presupposto buddista che ogni malessere fisico (e ogni male, in genere) ha un’origine non-fisica da ricercare nell’ignoranza, l’attaccamento e l’avversione. Questa tradizione terapeutica utilizza sia farmaci derivati da sostanze naturali che modifiche nella dieta e terapie fisiche come l’agopuntura. Saarumá era specializzato nella cura della colonna vertebrale: per lui la perfetta salute dell’uomo dipendeva interamente dalla corretta conformazione e posizione delle vertebre, e quasi tutte le malattie potevano essere guarite o quanto meno contenute se si sapeva su quale vertebra mettere le mani e come farlo esattamente, per poter così sbloccare il flusso di energia che circolava lungo la colonna vertebrale».[5]

Per cinque anni, tutte le mattine da lunedì a venerdì Saarumá approfittò della sua presenza a Buenos Aires per insegnare la propria arte a cinque medici[6] e a un chiropratico autodidatta con dubbie doti medianiche e un ego smisurato quanto la sua propensione alla menzogna: Ángel Cristo Acoglanis (1924-1989). Quest’ultimo era anche l’affidatario dello studio in cui si svolgevano le lezioni, sito in casa delle sorelle Sonia e Mercedes Anchorena, sue ex pazienti e ricche proprietarie terriere in capo ad una delle più prestigiose famiglie argentine.

Al principio del 1974, Saarumá affermò di aver trovato lo simihuinqui e fece ritorno al proprio Paese. Pare in effetti che la reliquia fosse stata rinvenuta ai piedi del Monte Uritorco da Orfelio Ulises Herrera nel 1934. L’uomo era un maestro di scuola, ma soprattutto apparteneva a una società esoterica di derivazione ermetica i cui membri erano perlopiù docenti dell’Università Nazionale di Córdoba. Intorno al 1940 il gruppo aveva accolto il giovane Guillermo Alfredo Terrera (1922-1998), studente alla stessa Università di Córdoba e più tardi docente di sociologia all’Università di Buenos Aires. A lui sarebbe stato affidato (nel 1958) lo simihuinqui, ereditato alla sua morte dal primogenito Guillermo Jr.

Saarumá si fece andar bene che la reliquia restasse a Terrera e non si fece più vedere. Egli non aveva rivelato la posizione di Erks, salvo spiegare che si trovava agli antipodi della più “chiacchierata” Asgharta, di cui comunque non erano note le coordinate. Laddove Asgharta indirizzava le “influenze” maschili, Erks incanalava le “energie” femminili. Il lama aveva inoltre trasmesso svariati mantra e alcune nozioni sulla struttura dell’irdin, la lingua primordiale degli antichi Antenarya, la civiltà tecnologica sopravvissuta al meteorite del 12.600 a.C. Cionondimeno Acoglanis ne approfittò per dichiarare in pubblico di canalizzare la voce del guardiano di Erks, il cui nome era non a caso “Saruma”. Con questa scusa invitava i turisti a salire con lui sull’Uritorco, dal cui terrazzo in località Los Terrones intonava i versi appresi dal tibetano e attendeva il tramonto per mostrare loro le luci di Erks. Particolari variazioni nella temperatura, nell’umidità e nella densità dell’aria deformavano e riflettevano le luci della vicina San Marcos Sierras, della diga idroelettrica “Arturo Illia” e dei fari delle automobili sulle strade maggiori (statale 38 e regionale 17). Per gli ingenui, erano manifestazioni della città eterica e dei suoi spiriti; per Acoglanis era moneta sonante.

Il chiropratico tentò altresì di cooptare Terrera, frequentandolo per un anno e mezzo tra il 1985 e il 1986 e cercando senza riuscirci di farsi cedere il bastone del potere per impiegarlo nelle folkloristiche “cerimonie” da lui imbastite a Los Terrones.

Da Saarumá, Acoglanis aveva infine probabilmente appreso del “Tempio della Sfera”, il centro spirituale di Erks che custodiva al suo interno un «particolare sistema di comunicazione costituito da tre specchi» che avrebbe risposto ad «un triangolo energetico in cui due donne facessero corona al sacerdote»[7], modalità che richiama evidentemente il “triangolo sacro” da noi trattato ne Il Tempio degli Illuminati in merito alla tradizione ulvunga. C’è tuttavia la possibilità che questi concetti venissero dalla lettura de Il Segreto delle Ande (1961) del contattista George Hunt Williamson (alias Brother Philip), membro quest’ultimo del gruppo di ricerca di Costantino Cattoi e tramite Cattoi in possibili rapporti con Cesare Porro.

Diversamente da Acoglanis, noi sappiamo che Asgharta era la sede dell’Ordine di Melchisedek, poi importato da Sargon a Babilonia (Kish) e mezzo millennio dopo tradotto nella (Nuova) Babilonia di Hammurabi (da qui chiamato Fratellanza di Babilonia). Risalendo indietro nel tempo e riconducendo la cultura di Sargon (gli Accadi) alle proprie origini, ci troviamo inevitabilmente al centro spirituale degli Antenarya, antenati comuni di Sciti, Arii e Atlanti. Sul lago Bajkal per l’esattezza.[8]

Potremmo prendere a riferimento il villaggio di Barguzin, sulla sponda sud-orientale, fondato nel 1648, quindi soltanto 28 anni in anticipo sull’iniziazione – proprio ai margini del Bajkal – di Gianfilippo Spinucci. Se dessimo retta a Saarumá, dovremmo cercare Erks agli antipodi, con semplici calcoli o – se siamo pigri – sfruttando la praticità di applicazioni online quali Antipodes Map.[9] Digitando “Barguzin” sulla casella di sinistra, ecco apparire sulla destra “Punta Arenas”, nella Tierra del Fuego, in Cile.

La città ospita l’Istituto Nazionale Antartico e costituisce il punto di partenza più utilizzato dalle spedizioni scientifiche dirette in Antartide, compresa la NASA che ha una propria sede permanente ai margini dell’abitato. Stiamo parlando della stessa NASA che dopo la 2a Guerra Mondiale aveva acquisito i laboratori dell’Ahnenerbe in Germania e quelli eventualmente ancora in Italia del Gabinetto RS/33. Ed è la stessa che nel 1961 aveva cercato di coinvolgere il figlio di Cesare Porro, Alessandro, il cui apparecchio (il Rabdomante Elettronico) costituiva un balzo in avanti rispetto al prototipo del padre (Rabdomante Meccanico).

Il concetto di città speculari agli antipodi è stato da noi trattato in Cronache del Dominio riguardo la stirpe di Ca-In (Caino), che dall’eD-eN in Asia avrebbe raggiunto No-De in Sud America. Qui, l’erede di Ca-In, Ku-Ku-L-Ca-In, avrebbe organizzando la cultura In-Ca, mentre suo figlio Enoch fondava nello Yucatan la città di T-Enoch-Titlan. Già nelle Cronache ponevamo in evidenza l’inversione dei gruppi consonantici, laddove le vocali – raramente trascritte e soggette ai mutamenti della lingua parlata – non potevano costituire un riferimento affidabile.

Se consideriamo il nome Asgharta[10], è opportuno ripulirlo del prefisso “ta”, che nelle lingue più antiche (come l’analogo “da”) significava banalmente “terra”. Il gruppo consonantico si riduce pertanto a S-GH-R, dove dobbiamo rammentare la tendenza di “GH” a mutare in “CH” (equivalente di “K”). Ne consegue che il gruppo consonantico di Erks (R-K-S) può considerarsi l’inverso di quello di Asgharta (S-K-R).

Il primo rituale celebrato ad Asgharta era servito a trasferire in tale sede il “carattere” del Polo Nord; dacché, immaginando uno spostamento rigido della griglia energetica del pianeta, il “carattere” del Polo Sud sarebbe passato agli antipodi di Asgharta, ad Erks appunto.

L’idea è presente nel nome di un gruppo esoterico fondato da Terrera: l’Escuela Hermética Primordial de las Antípodas.

Il discepolo di Acoglanis, José Trigueirinho (1931-2018), già operante come medium prima dell’incontro con il “maestro” (nel 1987), potrebbe aver scorto la veridicità dell’esistenza di Erks senza però essere in grado di localizzarla. Si sarebbe perciò attenuto alle supposizioni del chiropratico, accettando la collocazione sull’Uritorco.


Tornando al tema principale, non ci è dato sapere ove conduca la battaglia tra Desposyni e Anicio-Flavi, né se si possa tra questi riconoscere un buono e un cattivo, anche se d’istinto starei con i primi. Dal 1933 in questa lotta è stato coinvolto il fisico Ettore Majorana, di cui Stefania testimonia gli esperimenti, compreso quello “di 4a fase” in cui lo scienziato fu al contempo soggetto e oggetto. In questo frangente, un raggio a sezione quadrata proiettato da un piccolo macchinario produceva un aumento della sintropia, ovvero metteva ordine nei sistemi complessi.

Quando parliamo di sistemi biologici, mettere ordine vuol dire ringiovanire. Dopo le rose e un cane, Majorana avrebbe provato su sé stesso. E stando alle foto che circolano su di lui dal 2006 – scattate nello stesso anno, quindi prima dell’AI – sembrerebbe esserci riuscito. Nato nel 1906, avrebbe dovuto avere cent’anni, ma ne dimostra al massimo quaranta. Ciò che più importa, comunque, è che nel 2006 ancora si combatteva.

Cosa significa questo? Che siamo in procinto di incontrare gli Antichi? Che essi riprenderanno i corpi abbandonati nelle capsule? O dovremmo credere che i loro fratelli facciano ritorno dal pianeta dei tre soli?

Interessante infine che Majorana parlasse al proprio allievo – Rolando Pelizza – di una 5a fase, in cui il macchinario avrebbe permesso l’apertura di un canale attraverso altre dimensioni. Potrebbe trattarsi di un canale fisico, simile a quanto prodotto a Philadelphia, o – intendendo la frase in senso gergale-esoterico – la possibilità di trascendere il corpo allo stesso modo in cui avrebbero fatto gli Antichi 15.250 anni fa.


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[1] Cfr. Rabdo Team, Il Risveglio degli Antichi, IP 2018; D. Marin, Il Diario degli Antichi, IP 2022.

[2] La loggia rosacrociana dei Polari profetizzò per il 1933 proprio il ritorno di “colui che attende”. Cfr. Zam Bhotiva, Gianfranco De Turris & Marco Zagni, Asia Mysteriosa: La Confraternita dei Polari e l’Oracolo della Forza Astrale, Arkeios 2013.

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Evemero

[4] Cfr. Diego Marin, Appunti di Storia Proibita, IP 2020, #5.

[5] Sebastiano de Filippi, La Città della Fiamma Azzurra: Luci e Ombre sul Centro Intraterreno di Erks, XPublishing 2019, pp. 70-71.

[6] Tra cui María Isabel Mur dell’Università Nazionale di Cuyo a Mendoza, Carlos Mario Fiore dell’Università di Buenos Aires, Héctor Alexis Quarin.

[7] Sebastiano de Filippi, La Città della Fiamma Azzurra, XPublishing 2019, p. 97.

[8] Mentre scriviamo, veniamo informati che la setta cristiana russa dei “Vecchi Credenti” (fondata nel 1666) indicava Agharta con la parola “Belovodye”, la stessa che in termini più o meno vaghi designa le montagne a ridosso del Bajkal.

[9] https://www.antipodesmap.com/

[10] Abbiamo preferito adottare la forma più estesa Asgharta, meno comune di Agharta ma verosimilmente più antica. Che nel tempo si perda una lettera (in questo caso la “S”) è certamente più probabile che acquisirla.

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L’Utopia di More: Perché Non Ora?

Estratto da Andrea Porcarelli, Istituzioni di Pedagogia Sociale e dei Servizi alla Persona, Studium 2024, pp. 74-77.

Tra i testimoni, in senso forte, di una visione alta della politica in età rinascimentale possiamo ricordare Thomas More (1478-1535), colto umanista, impegnato nella vita politica inglese, che ricoprì diverse cariche, tra cui quella di Lord Cancelliere, che rappresentava un ruolo “di garanzia”, responsabile dell’indipendenza delle corti di giustizia. Di profonda fede cattolica egli rifiutò, nel 1534, di accettare l’Atto di Supremazia, con il quale Enrico VIII si proclamava capo supremo della chiesa d’Inghilterra. Per questo rifiuto fu condannato a morte con l’accusa di tradimento. Elevato alla gloria degli altari dalla chiesa cattolica nel 1935, come martire, è commemorato dal 1980 anche dalla chiesa anglicana e nel 2000 fu proclamato Patrono dei governanti e dei politici, da Giovanni Paolo II. Tra gli scritti politici che possono avere una valenza pedagogica possiamo cogliere alcuni passaggi della sua Utopia, termine da lui stesso coniato per indicare un “non luogo” in cui si realizzi una sorta di governo ideale. Il punto di partenza dell’opera è un’acuta e penetrante analisi della situazione politica reale, di cui si colgono alcune contraddizioni, a partire dalla pena capitale comminata ai ladri, sia perché dipende da ingiustizie che dovrebbero essere sanate in radice[1], sia soprattutto perché in questo modo non si affronta il problema fondamentale, che è di natura educativa:

«Se non mettete rimedio a tali mali, è vano vantar la giustizia esercitata a punir furti, giustizia più appariscente che giusta o utile. Poiché, quando lasciate che costoro siano educati molto male e i loro costumi fin dalla giovinezza si corrompano a poco a poco, si devono punire, è evidente, allorché, fatti uomini, commettono quelle infamie che la loro fanciullezza annunziava… Ma che altro con ciò fate, di grazia, se non crear dei ladri per punirli voi stessi?[2]»

L’impianto narrativo dell’opera è imperniato su un’ipotetica relazione di Raffaele Itlodeo, un dignitario che avrebbe solcato i mari con Amerigo Vespucci, e si caratterizza per il racconto di usi e costumi di altri popoli, come i Persiani, in cui i ladri sono condannati a restituire il maltolto ai legittimi proprietari e a compiere lavori forzati, per risarcire i derubati e la società. Si sottolinea in ogni modo il valore medicinale della pena, la quale «non colpisce se non per distruggere le colpe, ma salva gl’individui e li tratta in modo da forzarli ad essere buoni e risarcire col resto della vita tutto il male arrecato prima»[3]. Tutta la parte del testo dedicata alla narrazione degli usi e costumi del regno di Utopia non va intesa come un trattato di filosofia politica (pur avendo anche questa valenza), ma soprattutto nella prospettiva di una sorta di pedagogia sociale, quanto meno in embrione. Infatti, se ci poniamo sul piano filosofico-politico, la proposta di uno stato perfetto ma irrealizzabile non sarebbe di grande vantaggio, se non come punto di riferimento per una progettazione di tipo rivoluzionario. Se invece ne consideriamo le prerogative da un punto di vista pedagogico, il testo recupera una fruibilità diversa, sia come fonte ispiratrice di specifiche riforme (un progetto politico completo, di cui provare a realizzare alcune parti), sia per individuare obiettivi educativi da promuovere (una Paideia[4] sociale e civile), al di là della possibile di incidere sulle istituzioni politiche. Le leggi degli Utopiani sono poche e chiare, tali per cui «non solo vi è onorato e ricompensato il merito, ma anche l’uguaglianza è stabilita in modo che ognuno ha in abbondanza di ogni cosa»[5]. Il cardine di tutto l’ordinamento è l’abolizione della proprietà privata, il che richiama certamente la comunione dei beni di cui parla Platone nella Repubblica, ma anche le modalità di organizzazione della comunità cristiana delle origini[6] e la dottrina agostiniana della destinazione universale dei beni della terra. Di qui la convinzione circa il fatto che «non è possibile distribuire i beni in maniera equa e giusta […] senza abolire del tutto la proprietà privata»[7]. Tutti lavorano per contribuire al bene comun, ma – non essendoci parassiti sociali – sono sufficienti sei ore di lavoro, in modo che tutti abbiano modo di dedicarsi alla cura dei beni spirituali, che rappresentano il bene più eccellente e più strettamente connesso alla felicità autentica e che deve essere accessibile a tutti. Sono comunque esentati dal lavoro coloro che mostrano una speciale attitudine allo studio e svolgeranno il proprio servizio dedicandosi a questo a tempo pieno, immaginando che possano essere loro i “produttori” di nuova cultura, sempre che si dimostrino all’altezza di una così grande responsabilità:

«Ché se qualcuno di essi vien meno alle buone speranze che ha dato di sé, è ricacciato fra gli operai e, al contrario, non è raro che un manovale dia le sue ore di ozio con tanto impegno alla letteratura e tanto vi progredisca con la sua diligenza che, tolto al suo mestiere, venga promosso nella categoria degli uomini di lettere. Di tra questi studiosi vengono scelti gli ambasciatori, i sacerdoti, […] e da ultimo il principe[8]

Si tratta di un approccio pedagogico che da un lato è fortemente egualitario (soprattutto sul fronte della distribuzione dei beni materiali), ma dall’altro è fortemente meritocratico (soprattutto in ordine al ruolo da giocare nella produzione dei beni spirituali), con buone metodologie per incentivare il merito e favorire l’emergere dei talenti personali, facendo in modo che le persone siano motivate a servirsene in vista del bene comune e non per brama di ricchezza. In questo modello di intellettuale “utopiano” possiamo anche leggere una lucida critica di alcuni aspetti che caratterizzavano l’intellettuale umanista, spesso egocentrico e immerso nelle vicende “mondane” al punto da rischiare di esserne schiavo o di dipendere in modo eccessivo dalle condizioni concrete che garantiscono la sua sopravvivenza materiale. La cellula di base della società è la famiglia, concepita in modo “allargato”, con la presenza degli anziani, e in una prospettiva comunitaria: i pasti si prendono in comune, sia perché lo stato provvede a che ciascuno abbia ciò che è necessario, sia per coltivare attraverso la convivialità comunitaria il senso di appartenenza alla comunità sociale. Il divorzio è ammesso a ben precise condizioni, mentre l’adulterio è severamente punito.

Il percorso educativo comporta sia l’istruzione culturale, sia una profonda educazione morale che miri alla costruzione di abiti virtuosi: «s’adoprano infatti, con ogni solerzia, a istillar nell’animo dei piccoli, ancora teneri e cedevoli, idee senz’altro giuste e utili per conservar la loro repubblica»[9]. L’idea che una sana educazione morale sia alla base della vita associata e costituisca il tesoro più prezioso per una città era stata affermata con chiarezza da Platone e Aristotele (che parlavano della virtù della giustizia), è stata ripresa dai padri della chiesa e dai dottori del medioevo e conclude il percorso narrativo dell’Utopia, quasi a rappresentare l’eredità spirituale che giungerebbe da questo “non luogo” a tutti gli uomini di buona volontà. È evidente che – stanti le sue vicende biografiche – non fu possibile a More realizzare nella città degli uomini gli ideali che aveva così chiaramente esposto, ma gli fu possibile testimoniare con la propria vita e con la propria morte quanto li avesse profondamente interiorizzati.


[1] Così si esprime More: «si stabiliscono infatti, per chi ruba, pene gravi, pene terribili, mentre meglio era provvedere a qualche mezzo di sussistenza, acciocché nessuno si trovasse nella spietata necessità, prima, di rubare, e poi di andare a morte» (T. Moro, Utopia (1516), tr. it. Laterza, Bari 1986, p. 21).

[2] Ibid., p. 27.

[3] Ibid., p. 33.

[4] La Paideia è il modello educativo implicito nella struttura di riferimento (reale o immaginaria che sia, quale una civiltà o un ciclo letterario). I poemi omerici trasmettono ad esempio la paideia degli eroi achei e troiani: l’aspirazione a eccellere, la ricerca della gloria, l’onore, l’ospitalità, lealtà e fedeltà, coraggio, saggezza e astuzia, pietà e rispetto per gli dèi. [Nota Aggiunta]

[5] Ibid., p. 50.

[6] «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2, 44-45). Cfr. sopra il capitolo dedicato alla pedagogia della salvezza, nella parte in cui si espongono le scritture neotestamentarie.

[7] T. Moro, Utopia, cit., p. 51.

[8] Ibid., pp. 66-67.

[9] Ibid., p. 123.

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Manca Sempre l’Equilibrio

Imane Khelif VS Angela Carini

Nelle prime settimane di vita dell’embrione, siamo tutti femmine; lo spiega peraltro benissimo il primo Jurassic Park. Dopodiché, se presente il cromosoma Y, il nostro sistema endocrino produce un ormone che “trasforma” i genitali femminili in maschili. A volte però qualche cosa fallisce, giacché di questo ormone non ne viene prodotto abbastanza, o non viene assimilato a sufficienza. Così sei geneticamente uomo, ma i tuoi genitali sono femminili. Cinquant’anni fa, quando la società non prevedeva la libera espressione del sentire individuale, non era insolito che uomini sposassero uomini (geneticamente parlando) credendoli donne, scoprendone il genere effettivo solo quando i figli non arrivavano. Oggi è cambiata la società, ma non la natura, i cui ritmi sono notoriamente più lenti. Così il pugile algerino Imane Khelif è geneticamente uomo, ma i suoi genitali sono femminili. Allo stesso modo ha ricevuto un’educazione femminile ed è stato spronato a confrontarsi con le pari-età di sesso femminile, in un Paese quale l’Algeria in cui l’apparenza genitale era di certo preponderante sull’analisi del dna. Ora è nostro dovere metterci nei panni di questa persona che scopre tardivamente di essere qualcosa di diverso (per certi versi opposto) da quanto aveva creduto, contando anche il dramma di osservare il proprio corpo mentre assume forme “ibride”, con una conformazione ossea e muscolare maschile, in totale assenza di seno e con una folta peluria. È nostro dovere costringerci a sentire il dramma di costei in un gruppo di pari che certamente avrà posto domande, avrà deriso ed emarginato. Forse per reazione, Imane è diventata pugile.

Ora sarebbe opportuno che lei fosse accompagnata in un percorso psicologico che le permettesse di sentire e chiarire la propria identità, in vista eventualmente di un percorso ormonale che senza fretta le consenta di avere un aspetto fisico in armonia con l’identità infine da lei (e lei soltanto) riconosciuta. Purtroppo però nessuno vuole prenderla per mano, ma vogliono tutti usarla per la propria propaganda. I “woke” vogliono che rimanga nel mezzo, a rafforzare quel sentire caotico che rende l’individuo e la società tutta facilmente manipolabile, in cui si spacciano rinuncia e immobilismo per orgoglio (“pride”). I “fascisti” all’opposto vogliono che scompaia, perché nel loro mondo ideale l’imperfezione non esiste, e tutto quanto la richiami deve passare per il camino.

Nella fattispecie degli sport “di potenza”, si deve comprendere che la definizione di categoria passa per l’esame della struttura ossea e muscolare; perciò – se parliamo di boxe – Imane Khelif è senza dubbio un maschio e dovrebbe concorrere in una categoria maschile. “Senza dubbio” però per noi che non ne siamo coinvolti direttamente. Al contrario, non possiamo pretendere che lei ne diventi consapevole tutto d’un tratto e in maniera autonoma; per troppo tempo non le è stato concesso di riflettere e fare chiarezza. Sarebbe ovvio e pienamente giustificato che fosse confusa e arrabbiata.

Quanto alla sua avversaria, l’italiana Angela Carini, è altrettanto palese che non sia stata sconfitta dalla forza di Imane (che con altre donne aveva perso) ma dalla paura con cui è salita sul ring, di cui non avuto consapevolezza finché non ha ricevuto il primo pugno. Le polemiche dei giorni precedenti e le pressioni della squadra hanno fatto da censore, sicché la mancanza di elaborazione ha fatto crescere il panico a livello inconscio.

Quindi, a mio avviso, in questa circostanza hanno sbagliato tutti, e come sempre per mancanza di equilibrio (via di mezzo, temperanza). Una discussione pacata, che non avesse lo scopo di tirare le contendenti per la maglia, avrebbe permesso un match comunque più equilibrato. Ripeto, hanno contato più le forze sopite dall’attacco di panico che quelle accumulate dal testosterone. E se tale discussione pacata, lontana da scopi politici, ci fosse stata, forse fra quattro anni le stesse atlete XY avrebbero compreso che non si tratta di emarginazione od odio del diverso, ma di pure e semplici considerazioni sulla struttura scheletrico-muscolare, accogliendo senza contestazioni la richiesta di combattere come maschi.

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La Pace Incomincia dall’Utero

“La pace incomincia dall’utero”, seguendo Eva Reich

di Margherita Tosi

Contributo n.14 da E. Del Giudice, A. Giasanti, L. Marchino (a cura di),
Essere Umani: Prospettive per il Futuro, FrancoAngeli 2013

Le richieste che vengono fatte abitualmente agli psicoterapisti per l’in­fanzia riguardano i comportamenti disturbanti a casa e a scuola dei bambi­ni; il non raggiungimento delle abilità “normali” a quell’età, prima fra tutte il linguaggio e poi i vari apprendimenti. Ed è già gran cosa il fatto di rivol­gersi a psicoterapeuti e non a tecnici della riabilitazione, infatti in ogni mo­do la richiesta che viene fatta è di aggiustare, normalizzare i modi di es­sere inadeguati. Ci si preoccupa perché il bambino ha scarsa attenzione e quindi è stigmatizzato dalle istituzioni, non sta al passo con le aspettati­ve degli insegnanti e quindi sarà dislessico, disgrafico, discalculico, ecc. Si chiede al terapista di dare al disturbo il nome di una patologia, e una vol­ta fatta la diagnosi, se possibile, normalizzare o in ogni modo scaricare le istituzioni, famiglia e scuola da responsabilità. Se è una malattia, se poi si può dire che c’è una componente genetica tanto meglio, si faccia quel che si può (al bambino naturalmente) noi siamo anche benevolmente disposti a fare qualche cosa, ma fermiamoci qui e speriamo che col tempo il bambi­no “maturi”! Quasi mai si parla di felicità del bambino e quasi mai si va a cercare la causa profonda. Siamo noi psicoterapeuti che ci occupiamo delle cause antiche e in questo modo perdiamo il tempo che la povera scimmiet­ta potrebbe occupare ad allenarsi e a riallinearsi alle richieste di genitori ed educatori, senza perdersi in quisquilie come esseri umani felici.

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I Voladores

“Quelli che Volano”, ovvero i Padroni delle Eggregore

«Questa è l’ora giusta del giorno per fare ciò che sto per chiederti» continuò. «Ti ci vorrà solo un momento per impegnare l’attenzione necessaria. Non smettere finché non avrai visto l’ombra scura.»

E così fu: vidi una strana ombra scura proiettata sulle chiome degli alberi. Forse era un’ombra sola che si muoveva avanti e indietro, oppure erano più ombre che si spostavano da sinistra a destra e da destra a sinistra, o ancora verso l’alto. Assomigliavano a giganteschi pesci neri. Era come se un enorme pesce spada stesse volando nell’aria. Quello spettacolo finì per spaventarmi. Diventò troppo buio per vedere le foglie, ma riuscivo ancora a distinguere le fluttuanti ombre scure.

«Cosa succede, don Juan?» chiesi in ultimo. «Vedevo ombre scure dappertutto.»

«Ah, non è altro che l’universo. Incommensurabile, non lineare, esterno al dominio della sintassi. Gli sciamani dell’antico Messico furono i primi a scorgere quelle ombre e decisero di occuparsene. Le videro come le vedi tu adesso e le videro come energia che fluisce nell’universo. E scoprirono qualcosa di trascendentale.» Tacque e mi guardò. Le sue pause avevano un tempismo perfetto. Si interrompeva sempre lasciandomi appeso a un filo. «Che cosa scoprirono, don Juan?» lo sollecitai. «Scoprirono che abbiamo un compagno che resta con noi per tutta la vita» rispose. «Un predatore[1] che emerge dalle profondità del cosmo e assume il dominio della nostra vita. Gli uomini sono suoi prigionieri. Il predatore è nostro signore e maestro e ci ha resi docili, impotenti. Se vogliamo protestare, soffoca le nostre proteste. Se tentiamo di agire in modo indipendente, non ce lo permette.»

L’oscurità ci circondava. Se fosse successo alla luce del giorno, avrei riso fino alle lacrime delle sue parole. Ma al buio, non ne ebbi il coraggio.

CONTINUA


[1] In merito agli esseri non-organici, ovvero coscienze incarnate direttamente nella struttura dello spazio-tempo, rimandiamo a D. Marin, CoCreatori del Cosmo: Il Tuo Potere nella Danza dell’Universo, IP 2024. Vedi lo stesso per il rapporto tra esseri non-organici ed eggregore.

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Europeo 1992

Una Storia Calcistica Edificante

da Marco Cesati Cassin, La Legge del Karma, Sperling & Kupfer (PickWick) 2024, pp. 168-171

1992. Una guerra improvvisa imperversava nei Balcani e nel mese di giugno sarebbe iniziato il torneo europeo per nazioni di calcio, che si sarebbe tenuto in Svezia. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ordinò l’esclusione della Jugoslavia da tutte le competizioni internazionali sportive. A seguito di quella decisione, venne ripescata la prima delle nazioni escluse, che era la Danimarca. I giocatori vennero richiamati, in fretta e furia, dalle loro vacanze al mare appena dieci giorni prima dell’inizio delle gare. Il commissario tecnico della nazionale danese Richard Møller-Nielsen aveva in programma di cambiare la cucina, ma dovette rimandare (con gioia) per partecipare a quell’inattesa convocazione. Il portiere Peter Schmeichel si trovava su qualche spiaggia italiana quando ricevette la telefonata di immediato rientro a Copenaghen. Solo l’asso Michael Laudrup declinò la convocazione, motivando il rifiuto con il fatto che aveva appena vinto la Coppa Intercontinentale con il Barcellona e che andare agli Europei con la nazionale danese sarebbe stata una perdita di tempo perché non avrebbero mai passato il primo turno di qualificazione. Ma nulla accade mai per caso nel mondo e ciò che successe in quell’estate del 1992 rimarrà nella storia.

Il torneo incominciò e, in effetti, la nazionale danese non brillò nelle prime due partite, realizzando contro l’Inghilterra un misero pareggio e subendo una sconfitta contro i padroni di casa svedesi. Tutto sembrava procedere come Laudrup, probabilmente con un Cuba Libre in mano, aveva predetto da qualche spiaggia in Romagna. Invece si sbagliava, poiché nell’incontro contro la Francia la nazionale danese vinse per due reti a una e si qualificò per le semifinali. [Al tempo la formula prevedeva otto squadre in due gironi da quattro, con le prime due qualificate alle semifinali; NdR] I giocatori, sorpresi a loro volta di essere approdati alle semifinali con il ruolo di outsider del torneo, non presero la cosa come un importante segnale del destino. Erano tutti concentrati a preoccupati per un loro compagno di squadra, Kim Vilfort, difensore dalle buone qualità tecniche, che era stato investito durante il breve ritiro della nazionale da una terribile notizia sulla sua famiglia: sua figlia Line, di appena otto anni, era stata ricoverata in ospedale per una leucemia fulminante.

Grazie alla vicinanza tra Danimarca e Svezia, dopo ogni partita papà Kim rientrava a casa per stare con la sua bambina. Purtroppo la salute della piccola peggiorava, e i medici erano molto preoccupati che non ce la potesse fare.

Nel frattempo il torneo europeo proseguiva … La semifinale era contro una favoritissima Olanda, ricca di campioni come Van Basten e Gullit. Tutta la Danimarca si strinse intorno alla sua squadra e al dolore del difensore Vilfort. Dopo un combattutissimo incontro terminato due a due, i rigori diedero esito favorevole ai danesi. Il portiere Schmeichel parò un rigore tirato da Marco van Basten e la Danimarca si trovò in finale dei Campionati d’Europa contro la Germania mentre la vicenda personale di Kim continuava a consumarsi in modo drammatico. Line lo chiamava ogni giorno pregandolo di raggiungerla e Kim correva avanti e indietro tra le due nazioni, inseguito dal sogno della vittoria da una parte e dall’incubo del dolore indicibile della sua piccola che si stava spegnendo.

I danesi, seppur consci della potenza teutonica e dei suoi calciatori di straordinaria bravura, forse perché a quel punto non avevano più nulla da perdere, essendo giunti in modo del tutto imprevisto sulla vetta dell’Europa, scesero in campo determinati e concentrati. L’incontro, seguito con il fiato sospeso dall’intera Danimarca, divenne subito entusiasmante. Infatti, dopo soli venti minuti di gioco la Danimarca passò in vantaggio. I tedeschi provarono in tutti i modi a pareggiare, ma trovarono una difesa e soprattutto un portiere che «parava anche l’aria». A circa dieci minuti dalla fine accadde qualcosa che sembrava deciso dal cielo. Il numero 18 della Danimarca si ritrovò il pallone tra le gambe a seguito di un rimpallo di colpi di testa e, dribblando un difensore tedesco, lui che era un difensore calciò con la gamba sinistra senza essere mancino, spiazzò il portiere della Germania e infilò così il pallone in rete. Quel giocatore che non riusciva nemmeno a urlare tanto era emozionato ci chiamava Kim Vilfort.

I compagni lo sommersero di abbracci perché ora erano due reti a zero e mancavano solo pochi minuti al termine della partita. La telecamera inquadrò Kim che piangeva, ma tutti sapevano che non erano lacrime di gioia le sue. L’intera Danimarca pianse allora con lui in silenzio mentre il suo viso, in primo piano, lasciava vedere gli occhi rossi dal dolore. Lui, distrutto dal dolore, aveva fatto ciò che nessuno si sarebbe mai immaginato fosse possibile: aveva segnato il gol decisivo per vincere. La Danimarca diventò Campione d’Europa e la festa fu immensa. Da Cenerentola del torneo, chiamata all’ultimo per rimpiazzare la Jugoslavia, vinse nonostante tutte le previsioni più nefaste – Laudrup ancora oggi rimpiange di non essere stato in Svezia con i suoi compagni ad alzare la coppa.

Kim ritornò subito a casa e corse in ospedale per raccontare a Line l’incredibile storia che aveva appena vissuto. Lei guardò il suo papà eroe e si addormentò felice, mentre Kim le rimboccava le coperte. Purtroppo la malattia se la portò via pochi giorni dopo, ma Line aveva ricevuto le immagini del suo papà che correva da lei, dopo ogni partita, per accarezzarle i capelli e baciarle la fronte. Dal suo papà eroe che alzava la coppa al cielo in televisione, visto da decine di milioni di telespettatori.

Quel gol era il segno del destino, la conferma celeste della potenza dell’amore. Quella vittoria, unica e mai più ripetuta nella storia del calcio danese, era il sigillo di un popolo unito e raccolto intorno a quell’uomo, padre prima che calciatore, che con un’immensa forza e resistenza era riuscito a battere la Germania e ad accarezzare la sua bimba che si stava spegnendo in ospedale.

Questa è la storia di Kim Vilfort, che se non fosse stato un calciatore campione d’Europa nessuno avrebbe mai conosciuto. Una storia così toccante che, come un sasso lanciato in uno stagno, ha creato tanti cerchi nell’acqua, che piano piano si sono allargati, espandendosi, risvegliando migliaia e migliaia di esseri umani. Di anime addormentate.


Segue il film ispirato alla vicenda: