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L’Utopia di More: Perché Non Ora?

Estratto da Andrea Porcarelli, Istituzioni di Pedagogia Sociale e dei Servizi alla Persona, Studium 2024, pp. 74-77.

Tra i testimoni, in senso forte, di una visione alta della politica in età rinascimentale possiamo ricordare Thomas More (1478-1535), colto umanista, impegnato nella vita politica inglese, che ricoprì diverse cariche, tra cui quella di Lord Cancelliere, che rappresentava un ruolo “di garanzia”, responsabile dell’indipendenza delle corti di giustizia. Di profonda fede cattolica egli rifiutò, nel 1534, di accettare l’Atto di Supremazia, con il quale Enrico VIII si proclamava capo supremo della chiesa d’Inghilterra. Per questo rifiuto fu condannato a morte con l’accusa di tradimento. Elevato alla gloria degli altari dalla chiesa cattolica nel 1935, come martire, è commemorato dal 1980 anche dalla chiesa anglicana e nel 2000 fu proclamato Patrono dei governanti e dei politici, da Giovanni Paolo II. Tra gli scritti politici che possono avere una valenza pedagogica possiamo cogliere alcuni passaggi della sua Utopia, termine da lui stesso coniato per indicare un “non luogo” in cui si realizzi una sorta di governo ideale. Il punto di partenza dell’opera è un’acuta e penetrante analisi della situazione politica reale, di cui si colgono alcune contraddizioni, a partire dalla pena capitale comminata ai ladri, sia perché dipende da ingiustizie che dovrebbero essere sanate in radice[1], sia soprattutto perché in questo modo non si affronta il problema fondamentale, che è di natura educativa:

«Se non mettete rimedio a tali mali, è vano vantar la giustizia esercitata a punir furti, giustizia più appariscente che giusta o utile. Poiché, quando lasciate che costoro siano educati molto male e i loro costumi fin dalla giovinezza si corrompano a poco a poco, si devono punire, è evidente, allorché, fatti uomini, commettono quelle infamie che la loro fanciullezza annunziava… Ma che altro con ciò fate, di grazia, se non crear dei ladri per punirli voi stessi?[2]»

L’impianto narrativo dell’opera è imperniato su un’ipotetica relazione di Raffaele Itlodeo, un dignitario che avrebbe solcato i mari con Amerigo Vespucci, e si caratterizza per il racconto di usi e costumi di altri popoli, come i Persiani, in cui i ladri sono condannati a restituire il maltolto ai legittimi proprietari e a compiere lavori forzati, per risarcire i derubati e la società. Si sottolinea in ogni modo il valore medicinale della pena, la quale «non colpisce se non per distruggere le colpe, ma salva gl’individui e li tratta in modo da forzarli ad essere buoni e risarcire col resto della vita tutto il male arrecato prima»[3]. Tutta la parte del testo dedicata alla narrazione degli usi e costumi del regno di Utopia non va intesa come un trattato di filosofia politica (pur avendo anche questa valenza), ma soprattutto nella prospettiva di una sorta di pedagogia sociale, quanto meno in embrione. Infatti, se ci poniamo sul piano filosofico-politico, la proposta di uno stato perfetto ma irrealizzabile non sarebbe di grande vantaggio, se non come punto di riferimento per una progettazione di tipo rivoluzionario. Se invece ne consideriamo le prerogative da un punto di vista pedagogico, il testo recupera una fruibilità diversa, sia come fonte ispiratrice di specifiche riforme (un progetto politico completo, di cui provare a realizzare alcune parti), sia per individuare obiettivi educativi da promuovere (una Paideia[4] sociale e civile), al di là della possibile di incidere sulle istituzioni politiche. Le leggi degli Utopiani sono poche e chiare, tali per cui «non solo vi è onorato e ricompensato il merito, ma anche l’uguaglianza è stabilita in modo che ognuno ha in abbondanza di ogni cosa»[5]. Il cardine di tutto l’ordinamento è l’abolizione della proprietà privata, il che richiama certamente la comunione dei beni di cui parla Platone nella Repubblica, ma anche le modalità di organizzazione della comunità cristiana delle origini[6] e la dottrina agostiniana della destinazione universale dei beni della terra. Di qui la convinzione circa il fatto che «non è possibile distribuire i beni in maniera equa e giusta […] senza abolire del tutto la proprietà privata»[7]. Tutti lavorano per contribuire al bene comun, ma – non essendoci parassiti sociali – sono sufficienti sei ore di lavoro, in modo che tutti abbiano modo di dedicarsi alla cura dei beni spirituali, che rappresentano il bene più eccellente e più strettamente connesso alla felicità autentica e che deve essere accessibile a tutti. Sono comunque esentati dal lavoro coloro che mostrano una speciale attitudine allo studio e svolgeranno il proprio servizio dedicandosi a questo a tempo pieno, immaginando che possano essere loro i “produttori” di nuova cultura, sempre che si dimostrino all’altezza di una così grande responsabilità:

«Ché se qualcuno di essi vien meno alle buone speranze che ha dato di sé, è ricacciato fra gli operai e, al contrario, non è raro che un manovale dia le sue ore di ozio con tanto impegno alla letteratura e tanto vi progredisca con la sua diligenza che, tolto al suo mestiere, venga promosso nella categoria degli uomini di lettere. Di tra questi studiosi vengono scelti gli ambasciatori, i sacerdoti, […] e da ultimo il principe[8]

Si tratta di un approccio pedagogico che da un lato è fortemente egualitario (soprattutto sul fronte della distribuzione dei beni materiali), ma dall’altro è fortemente meritocratico (soprattutto in ordine al ruolo da giocare nella produzione dei beni spirituali), con buone metodologie per incentivare il merito e favorire l’emergere dei talenti personali, facendo in modo che le persone siano motivate a servirsene in vista del bene comune e non per brama di ricchezza. In questo modello di intellettuale “utopiano” possiamo anche leggere una lucida critica di alcuni aspetti che caratterizzavano l’intellettuale umanista, spesso egocentrico e immerso nelle vicende “mondane” al punto da rischiare di esserne schiavo o di dipendere in modo eccessivo dalle condizioni concrete che garantiscono la sua sopravvivenza materiale. La cellula di base della società è la famiglia, concepita in modo “allargato”, con la presenza degli anziani, e in una prospettiva comunitaria: i pasti si prendono in comune, sia perché lo stato provvede a che ciascuno abbia ciò che è necessario, sia per coltivare attraverso la convivialità comunitaria il senso di appartenenza alla comunità sociale. Il divorzio è ammesso a ben precise condizioni, mentre l’adulterio è severamente punito.

Il percorso educativo comporta sia l’istruzione culturale, sia una profonda educazione morale che miri alla costruzione di abiti virtuosi: «s’adoprano infatti, con ogni solerzia, a istillar nell’animo dei piccoli, ancora teneri e cedevoli, idee senz’altro giuste e utili per conservar la loro repubblica»[9]. L’idea che una sana educazione morale sia alla base della vita associata e costituisca il tesoro più prezioso per una città era stata affermata con chiarezza da Platone e Aristotele (che parlavano della virtù della giustizia), è stata ripresa dai padri della chiesa e dai dottori del medioevo e conclude il percorso narrativo dell’Utopia, quasi a rappresentare l’eredità spirituale che giungerebbe da questo “non luogo” a tutti gli uomini di buona volontà. È evidente che – stanti le sue vicende biografiche – non fu possibile a More realizzare nella città degli uomini gli ideali che aveva così chiaramente esposto, ma gli fu possibile testimoniare con la propria vita e con la propria morte quanto li avesse profondamente interiorizzati.


[1] Così si esprime More: «si stabiliscono infatti, per chi ruba, pene gravi, pene terribili, mentre meglio era provvedere a qualche mezzo di sussistenza, acciocché nessuno si trovasse nella spietata necessità, prima, di rubare, e poi di andare a morte» (T. Moro, Utopia (1516), tr. it. Laterza, Bari 1986, p. 21).

[2] Ibid., p. 27.

[3] Ibid., p. 33.

[4] La Paideia è il modello educativo implicito nella struttura di riferimento (reale o immaginaria che sia, quale una civiltà o un ciclo letterario). I poemi omerici trasmettono ad esempio la paideia degli eroi achei e troiani: l’aspirazione a eccellere, la ricerca della gloria, l’onore, l’ospitalità, lealtà e fedeltà, coraggio, saggezza e astuzia, pietà e rispetto per gli dèi. [Nota Aggiunta]

[5] Ibid., p. 50.

[6] «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2, 44-45). Cfr. sopra il capitolo dedicato alla pedagogia della salvezza, nella parte in cui si espongono le scritture neotestamentarie.

[7] T. Moro, Utopia, cit., p. 51.

[8] Ibid., pp. 66-67.

[9] Ibid., p. 123.

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